a cura del Gruppo di Studio Avser
Meccanica ed ingegneria agraria di fronte alle sfide dell’agricoltura che cambia
Per la terza intervista della rubrica “Voci dalle Campagne” ci siamo spostati a nord, in provincia di Verona, ma stavolta non per parlare con un’azienda agricola, bensì con un tecnico esperto di meccanica ed ingegneria agraria.
Il nostro intervistato si chiama Mattia Trevini, classe 1979, dottore agronomo e dottore di ricerca, laureatosi all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, con all’attivo una lunga esperienza di consulenza professionale nel settore e numerose pubblicazioni tecnico divulgative e anche accademico-scientifiche.
Un’intervista densa di contenuti e ricca di spunti di riflessione, che ci rende un affresco nitido del complesso modo che sta dietro alla meccanica agraria e al suo rapporto con l’agricoltura e gli agricoltori.
Si parla molto d’Italia, delle sue potenzialità, di quelli che sono i suoi punti di forza, ma anche delle sue tante e grandi contraddizioni.
Nell’intervista vi sono anche diversi confronti con l’estero, dove Mattia ha fatto alcune esperienze importanti, riportandoci le sue considerazioni su ciò che ha potuto vedere ed esperire di persona.
Chiunque voglia approfondire di più la conoscenza delle attività di Mattia Trevini può consultare il suo sito internet, la sua pagina Facebook o i suoi canali Telegram e YouTube, di cui riportiamo qua sotto gli indirizzi:
www.facebook.com/MattiaTrevini
t.me/Agroingegno_di_MattiaTrevini
www.youtube.com/channel/UCORtDb-xCMos33rQCqYPGIw
Buona lettura a tutti.
- Come nasce Agroingegno e di cosa si occupa?
L’idea di Agroingegno ha un’origine abbastanza antica, nel senso che la scintilla di quella che oggi è la mia attività lavorativa sorse ai tempi delle scuole superiori, dove maturò la mia forte passione per la meccanica agraria. Passione che mi spinse ad iscrivermi all’università. Risolto il dilemma tra le facoltà di ingegneria e quella di agraria a vantaggio di quest’ultima – anche se in realtà due anni fa mi sono iscritto ad ingegneria meccanica a Brescia, perché non si finisce mai di studiare! – dopo numerose e varie esperienze di lavoro, nel 2013 nacque ufficialmente Agroingegno. Il nome è stato inventato da mio papà!
Nell’ambito della mia attività l’obbiettivo che mi sono dato è quello di far interagire di più l’agrotecnica e l’ingegneria attraverso la meccanica agraria. Quindi, a vari livelli, con un approccio un po’ trasversale, mi trovo a fare consulenza ad aziende agricole, a concessionari importatori e a costruttori, su tematiche di agrotecnica, di meccanica agraria e d’ingegneria.
Nell’ambito più prettamente ingegneristico, sono molti anni che faccio consulenza a studi e società di settore con le quali interagisco su varie questioni. Ad esempio, con una società di Torino abbiamo fatto lavori di progettazioni del design agricolo o abbiamo applicato le tecniche di calcolo automatico per dimensionare macchine o, addirittura, fatto simulazioni delle macchine in azione sul terreno o su prodotti agricoli. In questo periodo sto collaborando con una società che si occupa di software per centraline di gestione dati e digitalizzazione macchine e impianti.
Invece con le aziende agricole faccio per lo più consulenze relative al 4.0, mentre ai concessionari importatori e ai costruttori le consulenze sono legate per lo più ad aspetti funzionali e qualitativi dell’impiego in campo e a suggerimenti relativi allo sviluppo delle macchine.
Ho un bacino d’utenza concentrato principalmente nell’area padana, ma ho collaborato anche a diversi progetti all’estero con l’inglese Claydon e la belga Vervaet. Al momento sto collaborando con un’azienda australiana, di cui però non posso rivelare il nome.
Oltre tutto questo, ormai da 14 anni scrivo anche articoli di approfondimento su prove in campo di macchine agricole o, in parte, di tecnica agraria, con le riviste L’Informatore Agrario e Macchine Agricole Domani di Verona oltre ad alcune pubblicazioni accademiche su riviste internazionali riguardanti alcuni lavori di ricerca che ho seguito con l’università di Perugia, dove ho svolto un dottorato di ricerca.
- Oltre alle aziende private collabori anche con enti pubblici?
Si, con l’Università di Milano e, come dicevo pocanzi, con quella di Perugia. Collaborazioni legate, chiaramente, allo sviluppo della meccanica agraria.
Con Milano ho lavorato nel 2018, mentre con Perugia, dopo un dottorato che si è svolto tra il 2010 e il 2012, sono ancora in contatto con uno dei professori per fare delle attività legate alla ricerca.
Sono comunque aperto anche a collaborazioni con altri enti pubblici – comuni, regioni, consorzi di bonifica – anche se per ora non ci sono o, meglio, di ufficiale non c’è ancora nulla.
- Nel ramo delle agrotecniche ti occupi anche di agricoltura conservativa. Innanzitutto, puoi spiegarci brevemente di cosa si tratta e poi quali sono, a tuo parere, le potenzialità e i limiti di questo approccio alla coltivazione?
In generale l’agricoltura conservativa si basa sulla riduzione dell’intensità di lavorazione del suolo con l’obiettivo di incrementare e mantenere alto il contenuto di sostanza organica nei terreni. In tal senso, dal punto di vista accademico una tecnica conservativa è quella di mantenere almeno il 30% di residui colturali in superficie, per garantire un certo livello di copertura del suolo, diminuendone così il fenomeno erosivo e la perdita di acqua tra i vari plus del sistema.
Ad ogni modo, in termini molto generali, si individuano tre principali approcci all’agricoltura conservativa: le minime lavorazioni (ne esistono di tante tipologie), la semina diretta su terreno sodo (no tillage, ovvero dove il terreno non è mai soggetto ad alcuna lavorazione se non l’interramento del seme) e infine lo strip tillage ovvero la lavorazione a strisce.
La mia attenzione e l’interesse verso l’agricoltura conservativa nasce proprio con quest’ultimo approccio, di cui mi sono occupato durante il mio dottorato, lavorando con l’università, con un’azienda agricola, con il costruttore di macchine agricole Ma/Ag di Cremona e con un importante supporto da parte del ramo italiano dell’azienda sementiera Pioneer, oggi parte del gruppo Corteva Agriscience.
Lo Strip-till nasce negli Stati Uniti, durante gli anni 80, per risolvere i problemi legati ai ritardi delle emergenze in regime di sodo su terreni particolarmente freddi, dove data anche la presenza di residui colturali in superfice i terreni non si scaldavano mai. Non a caso le prime macchine per lo strip tillage erano seminatrici da sodo modificate per fare una prima lavorazione concentrata sulla fila di semina.
Riguardo potenzialità e limiti dell’agricoltura conservativa quello che posso dire è che per la maggior parte degli agricoltori l’aratro è ancora parte integrante della propria attività e spesso l’abbandono, anche se non è totale, avviene più perché ci sono gli incentivi che per una presa di coscienza reale sul tema. E dal mio punto di vista credo non ci sia cosa più pericolosa che abbandonare una tecnica consolidata per qualcosa in cui non si crede. Se non si è ancora riusciti a fare il necessario passaggio mentale, ritengo sia meglio non abbandonare del tutto l’aratro, perché altrimenti si sarebbe troppo esposti all’insuccesso, finendo per consolidare ancora di più la propria convinzione iniziale. Ci sono comunque diversi casi un po’ particolari per condizioni agronomiche e ordinamenti produttivi dove l’aratro ha ancora la sua ragione d’utilizzo, pur con tutte le criticità del caso.
Tuttavia, penso che l’agricoltura conservativa possa fare molto con macchine operatrici, tra l’altro dal punto di vista meccanico e tecnologico molto avanzate, che vadano ad ottimizzare i cantieri e la tecnica agronomica.
- Puoi dirci due parole anche sull’agricoltura di precisione? Se ne parla tanto, ma a che punto siamo?
L’agricoltura di precisione è un tema fortemente legato alla misurazione dei parametri di campo e all’utilizzo di informazioni dettagliate per gestire tutte le fasi di lavorazione. Detta in soldoni: non si può migliorare ciò che non si misura.
È chiaro che finché ci sarà nella testa degli agricoltori l’idea che l’agricoltura di precisione significa andare dritto col trattore, siamo fuori strada. Dunque, è necessario trasmettere alle persone che cos’è in realtà. Con l’agricoltura di precisione si cambia il paradigma: tutto ruota attorno ai dati e meno alle macchine. Personalmente sto iniziando a dire alle aziende, soprattutto a quelle più piccole, di non fiondarsi a comprare macchine ipertecnologiche di cui poi non sanno che farsene, perché a questo punto diventa più importante un computer e un software buoni e imparare a gestire bene i dati che possono essere poi utilizzati dal contoterzista. Insomma, i dati sono benzina per le aziende.
Mi rendo conto, purtroppo, che troppo spesso il settore dell’agricoltura è ancora dominato dall’idea che sia più importante passare 20 ore al giorno in campo, perché bisogna lavorar duro. Ma nei contesti economici odierni il rischio è quello di lavorare tanto e sprecare risorse preziose, perché il mercato cambia repentinamente e noi, se pensiamo solo a lavorare, lavorare, lavorare, non siamo pronti a coglierne le evoluzioni e i mutamenti, finendo per restare indietro.
- Ho letto più volte alcune tue critiche sugli eccessi di entusiasmo riguardo il digitale e la robotica in agricoltura. Puoi spiegarci meglio il tuo punto di vista in merito?
Relativamente alla robotica e alla digitalizzazione sono sempre molto critico per un semplice motivo: le novità in quanto novità vanno conosciute, capite, osservate, analizzate, evitando sempre facili entusiasmi, poiché il rischio è quello di utilizzarle nel modo sbagliato e di fare grandi errori, vanificando poi l’effettiva efficacia e i vantaggi ottenibili, un po’ come spiegavo per l’agricoltura conservativa. Ogni nuova tecnica e ogni nuova tecnologia va sempre valutata all’interno del contesto in cui la si applica e, come sappiamo bene, le aziende stanno in piedi solo se fanno investimenti oculati e non se fanno dei salti nel vuoto.
- Nell’ambito della meccanizzazione agraria, cosa è rimasto in Italia di costruttori? Abbiamo svenduto tutto all’estero? Abbiamo ancora qualche punto di forza?
Beh, possiamo ancora considerare l’Italia come la patria della meccanizzazione agricola nel senso più generale del termine.
Nel dopoguerra, ad esempio, parlando di trattori, avevamo una quantità pazzesca di costruttori, spaziando dai grandi marchi, come Fiat e Landini, a numerosi marchi di piccoli costruttori che realizzavano trattori utilizzando residuati bellici lasciati dagli americani, i famigerati Carioca. Ma c’erano anche tanti piccoli marchi che producevano ex-novo, tipo Orsi, OTO Melara, Aurora, Bubba Arbos. Poi, chiaramente, nel corso del tempo tutte queste realtà in parte hanno chiuso, in parte sono state comprate da aziende più grosse. Ad ogni modo, se contiamo i costruttori di attrezzature il numero di aziende italiane è ancora elevatissimo, con tante realtà medio-piccole, di cui molte hanno un elevato grado di specializzate su alcune tematiche. Quindi, in questo senso, abbiamo sempre un Made in Italy molto forte.
Diverso è se ci riferiamo alle aziende multinazionali di trattori e grandi macchine, le quali un tempo erano totalmente italiane, come poteva essere ad esempio Fiat Agri, oggi nel gruppo CNH (Case New Holland). Ma abbiamo anche un gruppo italiano come Argo, il quale, oltre agli storici marchi nazionali Landini e Valpadana, ha rilevato anche lo statunitense McCormick. Oppure la Same Deutz-fahr, gruppo industriale proprietario anche di Lamborghini e Hürlimann, ma dove è l’italiana Same ad aver rilevato la tedesca Deutz, la quale si dice che altrimenti avrebbe chiuso parecchio tempo fa.
Inoltre, spesso e volentieri, capita per questi grandi marchi italiani che il progetto di costruzione è nostro, cioè l’ingegneria, il supporto tecnico, la ricerca e lo sviluppo della macchina è tutta italiana.
Ma la vera questione, secondo me, è che bisogna avere un’altra angolatura di osservazione.
- Ovvero?
Nel senso che dobbiamo cambiare punto di vista e iniziare a vedere un trattore non come un monolite, ma come un insieme di componenti. Mi spiego meglio.
Come dicevamo pocanzi, di marchi italiani di trattori o attrezzature con un’identità ben definita oggi troviamo pochi grandi costruttori e tantissimi piccoli e medi costruttori. Per quelli grandi seppure di proprietà italiana o in parte straniera, poi in realtà di italiano non è difficili che abbiano solo una parte della macchina in sé. Infatti, se guardiamo ad esempio i componenti di cui è composto un trattore è praticamente impossibile, al giorno d’oggi, che possono essere tutti prodotti dall’azienda costruttrice finale.
Le migliaia di componenti, dalle viti agli interruttori, dalle parti idrauliche alle circuiterie elettroniche, possono provenire dai produttori più disparati, sia presenti sul territorio italiano, sia stranieri e possono essere tanto piccole quanto grandissime aziende. È un indotto fortemente integrato. Direi di più, perché a parer mio in tutto questo marasma di componentistica, costruttori ed ingegneria, più che qualcuno che insegue qualcun altro, il mercato ormai è tendenzialmente omogeneizzato e si ragiona più per categorie di macchine e tipo di clientela da soddisfare. Alla fine, si scopre che molta componentistica è abbastanza condivisa.
Infatti, per sapere come sono fatti i trattori, quando si va alle fiere bisognerebbe visitare con più attenzione i padiglioni dedicati alla componentistica, i quali, chissà perché, sono invece sempre mezzi vuoti.
- Nelle tue consulenze ti sei mai occupato di meccanizzazione agraria per collina e montagna?
Nello specifico no, non ho mai fatto questo tipo di consulenze. Però, andando alla fiera di San Gallo in Svizzera, ho avuto modo di apprezzare la vastità di soluzioni che ci sono in merito, constatando che lo sviluppo della meccanica agraria per la montagna segue per lo più la logica di avere macchine molto basse e leggere e per ovvie ragioni, di piccole dimensioni, con soluzioni decisamente interessanti, tra cui forme elettrificate. Tra quest’ultime troviamo trattorini, carri unifeed (carro miscelatore utilizzato per pesare, miscelare e distribuire con la massima precisione il mangime al bestiame n.d.r.), piuttosto che i carri ponte per muovere il foraggio. Insomma, è un mondo a parte, ma dove c’è molto dinamismo e soluzioni ricercate.
- Nelle tue esperienze all’estero, cosa ti ha colpito di più, in positivo e in negativo, dei sistemi agricoli dei paesi in cui hai fatto consulenza?
Facendo un parallelismo, devo dire che “la terra è bassa” dappertutto e lo spirito che alberga dentro ogni agricoltore è abbastanza simile in ogni angolo del mondo. Essere agricoltori e fare agricoltura è un modo di essere e di lavorare con caratteristiche piuttosto comuni. Da questo punto di vista non ho trovato grandi differenze tra l’Italia e gli altri paesi.
Grandi differenze, più che altro, le ho trovate nell’ambito dei costruttori di macchine agricole. Ad esempio, in Germania trovi molte aziende più grandi e strutturate delle nostre, le quali adottano un approccio meno artigianale e molto più scientifico alla progettazione e alla costruzione, con ampio ricorso ad ingegneria, calcoli, prove dirette in campo. Questo ha chiaramente i suoi pro e contro.
Un altro aspetto che, inoltre, mi ha colpito nelle mie esperienze all’estero è che, spesso, i costruttori che ho conosciuto non solo sono ex agricoltori, ma spesso possiedono ancora l’azienda agricola di famiglia, dove magari è impiegata una parte della famiglia stessa. Partendo da lì, hanno poi creato aziende costruttrici di macchinari o di trattori con una forte esperienza diretta delle esigenze agricole.
Da noi in Italia, invece, ci possono essere aziende costruttrici con origini agricole, ma molto spesso chi fa macchine agricole proviene, più che altro, dal mondo industriale o artigianale.
- Si parla spesso di una mancanza di professionalità negli agricoltori italiani. Vista la tua notevole esperienza in campo, qual è il tuo punto di vista in merito?
Non parlerei di mancanza di professionalità. Abbiamo molte aziende dove il valore del lavoro è sacrosanto! Più che altro manca la voglia della formazione continua, dello studiare, dall’aggiornarsi e dal voler provare le novità. C’è sempre quella paura diffusa di abbandonare il vecchio per il nuovo, perché il vecchio è comunque più sicuro.
Il problema è che, forse, questa mentalità deriva anche dalle tante fregature che sono state prese nel tempo, date da persone o aziende che hanno promesso e che poi non hanno mantenuto le aspettative. Il discorso è decisamente più ampio, ma penso che quello sia uno dei principali problemi, insieme ad una forte tendenza all’individualismo che c’è negli agricoltori italiani.
Tornando al discorso che facevamo prima sui paesi esteri, durante il mio dottorato sull’agricoltura conservativa, facendo alcune ricerche sulla rete m’imbattei in due riviste americane di settore, “Strip-till Farmer” e “No Till Farmer”, che mi colpirono molto. Su queste riviste si leggono molte esperienze e c’è un continuo interscambio tra esperti e aziende agricole, mondo della ricerca universitaria, mondo della meccanica agraria e produttori di mezzi tecnici, con articoli sempre scritti in modo molto semplice e pratico, direi funzionale, tesi a confrontarsi con la realtà produttiva.
Qui da noi, questo tipo di esperienze e di approccio o mancano letteralmente o sono scarse. Abbiamo un mondo accademico che, troppo spesso, va per i fatti suoi. Ogni tanto fa i convegni, esce a divulgare informazioni, ma sembra più un mondo che parla a sé stesso ed è sganciato dalla realtà produttiva. E questo è un gran male, perché al di là di tutte le ricerche che avvengono in condizioni controllate, è proprio là dove si toccano con mano i problemi quotidiani che i criteri scientifici e sperimentali e tutta la teoria dovrebbero arrivare a confrontarsi. Altrimenti si resta autoreferenziali.
In Italia è necessario superare l’approccio che mi capita spesso di vedere ai numerosi convegni a cui ho partecipato dove arriva il professore di turno che spiega agli agricoltori come fare a coltivare la loro terra. Approccio che non solo credo sia abbastanza stupido, ma dal quale io stesso mi tengo ben lontano. Anche perché, diciamolo senza remore, se vuoi parlare agli agricoltori devi usare la loro lingua. Non puoi metterti a parlare solo da accademico. Deve esserci un giusto equilibrio tra autorevolezza e vicinanza ai problemi delle persone che gestiscono le aziende agricole.
- Domanda finale di ampio respiro. Agricoltura italiana: dove stiamo andando?
Dove stiamo andando? Alla continua ricerca di contributi in ogni forma! Fortunatamente, non tutti sono così e molte aziende sono in grado di fare impresa autofinanziandosi.
Però, un conto è potersi sostenere con i propri bilanci, dove il PSR o il credito d’imposta di turno sono uno strumento per dare più sicurezza imprenditoriale; un altro è poggiare quasi del tutto sui finanziamenti, i quali divengono poi un boomerang, vanificando la capacità imprenditoriale delle aziende agricole. Vivere di sussidi è veramente qualcosa di distorto. Ma con ciò non voglio accusare nessuno nello specifico, ma evidenziare che c’è un sistema da rifondare dalle sue basi.
Non vado oltre perché poi sfocerei nella politica ed è meglio fermarsi qui.
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