(1. L’IDEA DI PROPRIETÀ) LA CONCEZIONE FASCISTA DELLA PROPRIETÀ PRIVATA

(1. L’IDEA DI PROPRIETÀ) LA CONCEZIONE FASCISTA DELLA PROPRIETÀ PRIVATA

Di Cristian Leone

«La proprietà inviolabile non è affatto un principio dello Stato fascista, che ha dimostrato di saper colpire anche la proprietà in nome della Patria. La proprietà inviolabile è un dogma liberale e non fascista, inglese e non romano: da noi proprietario è depositario e non altro. La storia di Roma, la storia dei Comuni che più dei duchi e dei papi furono i discendenti di Roma, è storia di spogliazioni compiute dallo Stato per il popolo». Queste parole di Berto Ricci sintetizzano perfettamente l’idea fascista della proprietà privata.

Il principio corporativo

Il corporativismo elabora una terza via in cui la proprietà non viene né negata né considerata come diritto fondamentale e inalienabile, ma assume una funzione sociale. Il fascismo accusa il liberalismo di avere una concezione sacrale della proprietà privata e si oppone ugualmente a quella comunista, che mira alla totale soppressione dell’iniziativa individuale e alla statalizzazione completa dell’economia. È nella subordinazione consapevole all’interesse della nazione che l’iniziativa privata trova la sua giustificazione, la sua norma, la sua disciplina. L’interesse privato è sempre subordinato all’interesse superiore della produzione nazionale, per questo motivo occorre dare alla proprietà una reale ed effettiva funzione sociale. Finché la sua iniziativa corrisponde agli interessi generali e si svolge in armonia di essi, la proprietà è tutelata dallo Stato, ma se il proprietario non adempie a questo dovere, o per inerzia o per incomprensione delle esigenze pubbliche, interviene lo Stato, come rappresentante degli interessi politici. In questa concezione fascista della proprietà, se l’azione del proprietario è improduttiva o inoperosa lo Stato può intervenire spogliando il proprietario della gestione del bene. Lo Stato fascista non concepisce la proprietà come un diritto esclusivo, ma come un dovere sociale, scrive Francesco Ferrara in La concezione fascista della proprietà privata: «La proprietà non è solo un diritto, ma un dovere, non è solo il mezzo per il proprietario per procurarsi delle utilità a suo vantaggio, ma è uno strumento di cooperazione sociale, perché serve a realizzare interessi che riguardano l’intera società. Il proprietario è investito di un mezzo economico, che egli deve sapere adoperare, anzi che è obbligato ad usare nell’interesse pubblico. La proprietà è diventata un dovere sociale, una funzione sociale». La proprietà privata, per il fascismo, non è né sempre un bene né sempre un male, ma può diventare una cosa e l’altra a seconda dell’uso che se ne fa, per questo motivo lo Stato interviene per disciplinarla.

La concezione della proprietà secondo il principio liberale

Il regime liberale, secondo il fascismo, prevede la sovranità dell’individuo sui beni, nella forma più piena ed assoluta. La libertà liberale viene identificata con il principio della proprietà privata, e con la volontà di disporla come il singolo ritiene più opportuno indipendentemente dal contesto sociale, scrive Ferrara: «Il diritto di proprietà si manifesta nell’uso o nel non uso della cosa: poiché il bene è assoggettato all’esclusivo potere del titolare, e nessuno è legittimato a penetrare in questa sfera chiusa, od a censurare il comportamento del proprietario, questi può agire o non agire, può godere o non godere, perché anche il non uso è esercizio del diritto». La legge liberale predispone il diritto di godere e disporre della cosa nella maniera più assoluta, a patto che non se ne faccia un uso vietato dalla legge e dai regolamenti. Quindi anche lo Stato liberale pone dei limiti, ma per il fascismo, sono più che dei limiti delle mitigazioni della sovranità individuale, non colpiscono il diritto alla proprietà che resta sacro e inviolabile. La proprietà privata resta il fondamento sul quale si erge lo stato liberale, scrive sempre Ferrara: «Questo concetto di dominio solitario, riceve bensì delle limitazioni od oneri dalla legge, nell’interesse pubblico e privato, ma queste restrizioni sono semplici attenuazioni di questa sovranità, ma non osano intaccare il potere del proprietario, considerandosi come attentati alla sua libertà. Il diritto del proprietario si estende su tutti i beni capaci di utilizzazione, diretta o indiretta, senza riguardo all’interesse che certe cose possono presentare per la generalità». La dottrina liberista vuole che il perseguimento del benessere del singolo cittadino porti automaticamente a un miglioramento generale, ogni individuo cercando il massimo benessere per sé, garantisce la prosperità collettiva. Per Mussolini, la crisi del ’29 ha mostrato l’infondatezza della tesi economica liberista e quindi ha portato a una revisione del concetto stesso di proprietà. La società liberale pone al centro l’individuo, tutte le altre istituzioni sono al suo servizio, cooperatrici del suo benessere. Per l’idea liberale di libertà l’intromissione dello Stato nella vita economica è un grave atto liberticida che va a minare l’indipendenza dell’individuo, che con il suo lavoro si è costruito, senza l’aiuto dello Stato, la sua proprietà. Nella società capitalistica non c’è incontro tra Stato e individuo, ognuno ha rispettive sfere di competenza e sovranità che l’altro non può intaccare, esprime così Ferrara questo concetto: «Si può dire che lo Stato ignorava gli individui, si estraniava dai loro interessi, si isolava in una sfera ideale, abbandonando gli individui a sé stessi. Lo Stato aveva la sovranità, l’uomo, la proprietà: ognuno aveva un dominio proprio, e queste sfere erano indipendenti e intangibili».

Funzione sociale della proprietà

Al polo opposto dell’idea liberale di proprietà si trova quella dell’ideologia comunista. Mentre per i liberali la proprietà privata è il fondamento della libertà, per i comunisti è il principio del male, di ogni egoismo. Nella società comunista la proprietà privata viene soppressa e sostituita dalla sua collettivizzazione. È lo Stato quindi che diventa il solo ed unico proprietario esistente e organizza la produzione eliminando ogni iniziativa individuale. Il fascismo, invece, non vuole sopprimere la proprietà privata ma assegnarle un ruolo nuovo, così espresso da Mario Pepe: «Il fascismo crede nei valori dello spirito, nell’efficacia dell’educazione; ed avverso all’antitesi socialista ritiene che la questione sociale si possa e debba risolvere non sopprimendo, ma puntando sull’iniziativa individuale e indirizzandola con sistema, organicità e senso preciso di responsabilità verso la realizzazione dei fini sociali e nazionali. Respinge l’iniziativa individuale in senso liberale, amorale e asociale; e la convoglia verso la realizzazione del benessere collettivo, intuizione dei fini superiori della collettività nazionale». Le leggi che il regime fascista applica, soprattutto in materia di bonifiche e di lotte al latifondo, rendono operativa la nuova concezione sociale della proprietà privata. Queste leggi contengono limiti ed obblighi imposti dallo Stato al diritto di proprietà e riducono i poteri riconosciuti al proprietario. Il fine della ricchezza non è individuale ma sociale, per questo motivo il fascismo rivendica l’ingerenza nella vita economica dell’individuo, quando questo utilizza la proprietà a scopi egoistici: «La ricchezza non è provvisoria soltanto per legge di natura ma anche perché lo Stato fascista può toglierla a chi male ne usa». Lo Stato liberale, secondo gli scrittori fascisti, ha confuso e sovrapposto il concetto di iniziativa individuale e iniziativa privata, infatti ogni azione umana è strettamente individuale, ma dato che essa si svolge all’interno di una comunità, non può per nessun motivo essere privata. Il regime fascista associa il dovere al diritto, imponendo al titolare di questo dei limiti e degli obblighi in vista dei fini nazionali. Così descrive Filippo Carli quest’idea di proprietà in La concezione fascista della proprietà privata: «L’economia corporativa rispetta il principio della proprietà privata. La proprietà privata completa la personalità umana: è un diritto e, se è un diritto, è anche un dovere. Tanto che noi pensiamo che la proprietà deve essere intesa in funzione sociale; non quindi la proprietà passiva ma la proprietà attiva, che non si limita a godere i frutti della ricchezza ma li sviluppa, li aumenta, li moltiplica».

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