(15. QUALE SOVRANISMO?) UN “SOVRANISMO DEBOLE” IN DIFESA DELLA LIBERTÀ, DEI POPOLI E DEI TERRITORI

(15. QUALE SOVRANISMO?) UN “SOVRANISMO DEBOLE” IN DIFESA DELLA LIBERTÀ, DEI POPOLI E DEI TERRITORI

Il professor Paolo Becchi è attualmente uno dei più noti esperti sul tema del “sovranismo”, su cui ha scritto numerose riflessioni importanti quale “Italia sovrana” (Sperling & Kupfer, 2018) e “Manifesto sovranista” (Giubilei Regnani, 2019). Il suo pensiero, per quanto non totalmente in sintonia con diversi spunti della serie di articoli “quale sovranismo?”, può dunque essere utile per stimolare il dibattito, il confronto e aprire un laboratorio di idee che incida sul reale. Pubblichiamo quindi un suo dettagliato spunto, tratto dal numero della rivista “L’Ircocervo” interamente dedicato al sovranismo (con contributi di De Benoist, Dugin, Fusaro, Gervasoni) e da lui curato (ndr)

Di Paolo Becchi

Ciò che è entrato in crisi nei tempi recenti è una certa idea di “sovranità statale”, ma il sovranismo potrebbe invece indicare, almeno nel contesto europeo, una via di uscita da questa crisi. Individuiamo tre punti per chiarire la questione:

A) Il “sovranismo” non si identifica semplicemente con la mera difesa della sovranità statale, bensì cerca di ripensare l’idea della sovranità dopo il fallimento del classico modello centralistico e assolutistico di sovranità. Per questo, tra l’altro, si sposa bene con rivendicazioni indipendentistiche o autonomistiche come quelle della Catalogna e del Québec o per riferirsi alla situazione italiana, con le rivendicazioni autonomistiche della Lombardia e del Veneto, che il potere centrale sta cercando in ogni modo di  bloccare, nonostante referendum popolari a larga maggioranza si siano espressi a favore dell’autonomia “differenziata”. Il primo movimento “sovranista” ha preso forma a rigor di termini già nel lontano 1968 con la fondazione del “Parti Québécois” (A. Bernard, L’histoire de la revendication souverainiste québécoise). La “revendication souverainiste” dei suoi fondatori non consisteva in un’idea radicale di sovranità come lo era per i vecchi separatisti che desideravano l’indipendenza a tutti i costi. L’idea di sovranità da loro avanzata è stata più conciliante: una “souveraineté-association”, in breve un Québec sì “sovrano” ma “associato” al resto del Canada. In questo tipo di rivendicazioni, che ben si sposano con un impianto federale, possiamo già vedere l’embrione di quello che ho definito “sovranismo debole”.

“Sovranismo”, a differenza della tradizionale sovranità statale, si oppone a centralismo e si adatta perfettamente a istanze di natura federalistica. Per il sovranismo, infatti, i poteri “pubblici”, autoritativi, non risiedono per principio in un ente separato (lo “Stato”), ma sono distribuiti attraverso gli accordi che le diverse associazioni e organizzazioni territoriali stringono di volta in volta tra loro. La sovranità non è più “una”, “indivisibile” e “assoluta”, come nel modello classico, hobbesiano. Essa è, invece, “diffusa”, distribuita all’interno della comunità territoriale, a partire dal basso, e non dall’alto. Non è lo Stato che “delega” alle associazioni, alle comunità territoriali (Regioni, Comuni, etc.) alcuni dei “suoi” poteri: al contrario, sono queste ultime che, disponendo in linea di principio di tutti i poteri che occorrono a svolgere i propri compiti, “delegano” agli organi statali quelle attribuzioni necessarie ad assicurare la realizzazione di obiettivi che esse, da sole, non riuscirebbero a raggiungere. È vero che, da diversi anni, si parla del “principio di sussidiarietà” (sul tema si vedano, tra gli altri, i lavori di Massa Pinto, de Benoist, Bagnai) con riferimento ai rapporti tra Stato ed enti territoriali. Ma esso è stato troppo spesso confuso con il decentramento, ossia con la concessione, da parte del potere statale, di determinate competenze alle autorità locali. Qui però non si tratta di “concessioni”, di un movimento ancora una volta dall’alto verso il basso; al contrario, si tratta di riconoscere il principio di un federalismo non “di facciata”, ma reale, un federalismo per cui sono sempre gli enti locali ad essere titolari, almeno in linea di principio, dei poteri, e che saranno essi a “delegare” allo Stato l’esercizio di alcune funzioni fondamentali: la difesa, la politica estera, la moneta, la giustizia federale, le garanzie di base per lo Stato sociale.

B) Cosa non ha funzionato nel vecchio modello di sovranità? Ci siamo dimenticati che gli “Stati” non sono entità astratte, ma l’espressione concreta, esistenziale, della volontà politica di determinate realtà territoriali. Non esiste astrattamente “il popolo”: esistono, invece, i popoli, ciascuno con le proprie culture e tradizioni, con le proprie differenze, e che tuttavia condividono un insieme di tratti, di valori, di principi, di stili di vita, che consentono loro di identificarsi in una unità politica. Da napoletano a italiano, da italiano a napoletano: è il movimento, ad esempio, di uno dei padri del liberalismo quale Benedetto Croce.

Ci siamo dimenticati anche del fatto che “sovrano” non è lo Stato inteso come insieme di organi, istituzioni e nemmeno l’individuo isolato (che è una mera astrazione). Se la modernità è iniziata con l’assolutismo politico, con le grandi monarchie assolute essa è infine giunta alla costruzione dello Stato di diritto, e con esso la sovranità si è trasformata in sovranità del popolo. Sovrani sono prima di tutto i popoli. Ma è proprio di questo che oggi si sente la mancanza in Europa. Ed è proprio in questo contesto che nella Francia degli anni Novanta il sovranismo si è presentato in quella forma che poi è diventato dominante in Europa, vale a dire come rivendicazione delle autonomie nazionalpopolari contro il processo di integrazione europea iniziata a Maastricht.

Dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989 e la fine dello stalinismo nel 1991 l’Europa di Maastricht si è trasformata in un Impero neoliberale, a guida franco-tedesca, formato da Stati molto eterogenei tra loro che entrando a farne parte sono stati di fatto obbligati ad astenersi dall’intervento pubblico nelle proprie economie. La moneta unica era parte integrante di questo progetto. Basta leggere le opere di Wolfgang Streeck (Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico) o di Yoram Hazony (Le virtù del nazionalismo) – e cito di proposito pensatori molto distanti tra loro – per rendersene conto.  Ecco, il “sovranismo” (G. Valditara, Sovranismo. Una speranza per la democrazia e M. Gervasoni, La rivoluzione sovranista) in Europa ha a che fare con tutto questo, con un pensiero ancora dominante, quello di una Europa che ha perso lo spirito delle sue origini e si è trasformata in un Impero che opprime i suoi popoli, e i popoli che non accettano più in modo automatico la loro sottomissione e che rivendicano il senso della loro appartenenza. Per dirla filosoficamente il “sovranismo” si fonda sulla differenza tra le identità (identità regionali all’interno degli Stati, identità nazionali all’interno di una Confederazione), mentre l’Impero si fonda sulla identità delle differenze (sul modello cioè del “cittadino globale” identico, quale sia la sua nazionalità, la sua cultura ecc.). Il sovranismo pensa ad una politica costruita dal basso (dal particolare all’universale, dalle Regioni allo Stato, dallo Stato all’Europa), mentre l’Impero, nello spazio europeo pensa dall’alto verso il basso, dalla Unione europea agli Stati nazionali, dagli Stati alle Regioni. Insomma, contro lo strapotere della Unione imperiale, il “sovranismo” vuole far valere un’idea di ordine politico che non possa prescindere dall’esistenza di Stati nazionali.

C) Al sovranismo viene spesso rimproverato di essere un pericolo per la democrazia, dal momento che sarebbe connotato in senso decisamente antiliberale. I sovranisti sarebbero tutt’al più fautori di una “democrazia illiberale”. Si potrebbe subito replicare che per una sorta di ironia che nella storia è tutt’altro che infrequente quel tipo di democrazia è stata realizzata in questi mesi di emergenza sanitaria proprio da coloro che più aspramente la criticavano. Non sono stati molti governi sedicenti liberaldemocratici ad aver adottato decisioni fortemente illiberali per contrastare la diffusione del virus? Non dimentichiamo quello che è avvenuto nel nostro Paese dove decisioni come quella di chiudere per mesi in casa sessanta milioni di italiani, concedendo l’uscita solo per urgenze e con una autocertificazione a causa di una emergenza localizzata in alcune Regioni del Nord, sono state inizialmente prese con meri atti amministrativi non aventi forza di legge. E cosa c’è di più illiberale del dichiarare il prolungamento di uno stato di emergenza senza emergenza?

Approfondiamo tuttavia il punto, senza polemica. Bisogna intendersi sul significato da attribuire al liberalismo, prima di denunciare come illiberale la posizione sovranista. E sotto questo profilo Corrado Ocone ritiene che il “sovranismo” possa per certi versi addirittura esercitare una “funzione liberale”. In effetti, nonostante tutte le critiche che si possono svolgere al liberalismo, del pensiero liberale resta un’eredità preziosa. Ciò che è veramente esaurito, oggi, è l’esperienza dei regimi fascisti, nazionalsocialisti e stalinisti e delle ideologie totalitarie connesse ad esse.

Che cosa lega tutte queste esperienze, pur nella radicalità delle differenze? La mancanza del riconoscimento della libertà individuale che contraddistingue invece il liberalismo. Oggi anche questo pensiero viene demonizzato perché il liberalismo ha finito col presentarsi nella forma neoliberale, che potremmo definire come una sua patologia ipertrofica tendente a ridurre l’intera società al mercato. E non vi è dubbio che mentre le ideologie totalitarie del secolo scorso siano state sconfitte, il liberalismo abbia mostrato una capacità di resistenza maggiore riuscendo a trasformarsi nell’unica ideologia dominante, quella perfetta per il globalismo e la mondializzazione. Proprio per aver fatto dell’“ordine spontaneo” del mercato il suo principio il liberalismo ha oggi ancora fortuna, ma oggi come allora non è in grado di dare un fondamento politico allo Stato, anzi al limite – si pensi alle concezioni anarcocapitaliste[1] – ne può fare anche a meno.

Lo Stato, nella migliore delle ipotesi, si riduce alla difesa della libertà e della proprietà degli individui, ma questo – e proprio in questo consiste il limite filosofico del liberalismo – non basta a creare forti legami politici di appartenenza[2]. E tuttavia, anche se questa premessa individualistica non è sufficiente a fondare una comunità politica è indispensabile per la convivenza in una società decente. Del resto, il principio liberale di cui parlo va ben al di là della storia stessa del liberalismo. “La libertà è sempre la libertà di chi la pensa diversamente”, amava ricordare Rosa Luxemburg. Non è dunque questo il punto. Il punto è che la “società degli individui” deve essere superata da qualcosa di più alto, la “comunità dei cittadini” che si riconoscono in uno Stato. Ecco perché il “sovranismo”, che rigetta qualsiasi idea di sovranità forte e autoritaria, non può non riconoscere l’importanza della libertà individuale e dei suoi diritti. Ecco perché, pur consapevoli di tutti i limiti del liberalismo, non possiamo nel senso indicato non definirci – anche da sovranisti – liberali, esattamente come per Croce non potevamo non definirci cristiani. Ed in fondo, non è stato proprio il cristianesimo ad aver inventato l’individuo? Il problema del liberalismo è di aver dimenticato i popoli, il problema del populismo è di aver dimenticato gli individui. Solo un sovranismo “debole”, come quello che abbiamo cercato di delineare in diversi lavori (Italia sovrana, Manifesto sovranista) potrà superare i limiti delle due concezioni. D’altro canto, bisogna anche tener presente una distinzione importante introdotta nel contributo di Dino Cofrancesco, quella tra liberalismo seisettecentesco, razionalistico, contrattualistico e universalistico e liberalismo ottocentesco, storicistico e particolaristico. Ecco, in questa tradizione ottocentesca del liberalismo il sovranismo può sicuramente pescare. Ma, come abbiamo cercato di mostrare con molti scritti, persino il liberalismo che insiste sul riconoscimento delle libertà individuali contiene un aspetto da salvaguardare, come proprio l’emergenza sanitaria con le sue politiche “securitarie” ha fatto di recente emergere. Più difficile – a nostro avviso – far incontrare il sovranismo con il conservatorismo, come cerca di fare Marco Gervasoni, distinguendo peraltro, in modo del tutto opportuno, diverse forme di conservatorismo. L’elaborazione del “sovranismo” è un cantiere aperto, e la riflessione, oggi più che mai necessaria, continua.


[1] Cfr., per una introduzione, R.A. Modugno, Murray N. Rothbard e l’anarco-capitalismo americano, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1998; R.A. Modugno – D. Gordon, Individualismo metodologico. Dalla Scuola austriaca all’ anarco-capitalismo, Luiss Edizioni, Roma, 2001; C. Lottieri, Il pensiero libertario contemporaneo, Liberilibri, Macerata, 2002.

[2] Nella storia del pensiero è stato Hegel il primo a rendersi conto del limite filosofico del liberalismo muovendo da un punto di vista peraltro liberale. Popper con la sua “società aperta” – bisogna pur dirlo – su questo non aveva capito niente. Sul tema, rinvio a P. Becchi, Il tutto e le parti. Organicismo e liberalismo in Hegel, ESI, Napoli, 1994; Id., Le filosofie del diritto di Hegel, Franco Angeli, Milano, 1990.

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