(3. L’IDEA DI PROPRIETÀ) DIFENDIAMO LA PROPRIETÀ DAL TURBOCAPITALISMO

(3. L’IDEA DI PROPRIETÀ) DIFENDIAMO LA PROPRIETÀ DAL TURBOCAPITALISMO

Di Agostino Nasti

Una famosa frase del “distributista” Chesterton recita: «Troppo capitalismo non significa troppi capitalisti, ma troppo pochi capitalisti». In effetti, alla dilatazione incontrastata del capitalismo non corrisponde una eguale estensione della proprietà privata ed un suo più diffuso godimento, ma anzi si registra un aumento della concentrazione della ricchezza nelle mani di una ristretta cerchia di soggetti dediti alla speculazione finanziaria, mentre si assiste al deterioramento delle condizioni di vita di gran parte della popolazione. Il preteso aumento del  «benessere», valutato essenzialmente nei termini di una accresciuta disponibilità di beni voluttuari e di consumo, è ben altra cosa rispetto al miglioramento della «qualità della vita», apprezzata, più globalmente, in ordine alle condizioni di vita, di lavoro, dell’ambiente urbano e naturale ove l’uomo è inserito, nonché dal “clima spirituale” che informa una certa comunità.

Le tendenze negative in atto nella società, spesso denunciate da queste parti, lungi dal ricadere in interpretazioni di tipo marxista, trovano indubbiamente il loro fondamento nel dispiegarsi, in un processo secolare, di quel complesso di idee figlie del «pensiero moderno» di matrice individualistica e materialistica; cionondimeno, non può tacersi il concorso delle modificazioni intervenute nella “struttura economica” nell’ultimo trentennio, anch’esse, del resto, frutto della puntuale applicazione, nel suddetto ambito, di tale visione del mondo.                                                   

Pietra angolare di questo processo, nonché esempio paradigmatico, è la vicenda concernente il rapporto di lavoro subordinato, con la progressiva erosione del tipo a tempo indeterminato, cui la grancassa del sistema mediatico e della cultura di massa ha contribuito a conferire, nell’immaginario collettivo, la foggia di privilegio parassitario e ozioso, e la contestuale introduzione di forme «precarie», caratterizzate dall’instabilità e da un diminuito potere contrattuale sul fronte del prestatore di lavoro. Esse risultano funzionali a un modello di sviluppo informato a criteri quali la competitività, il cui costo, specie nei paesi che si sono privati della possibilità di adoperare la leva valutaria, si riverbera sui salari, ovvero la stabilità dei prezzi, altro dogma indiscutibile del liberismo, sancito anch’esso nei Trattati dell’UE: peccato – non certo per i suoi fautori – che esso sia distonico a qualsiasi politica di piena occupazione e di stimolo della domanda interna.

Una rivoluzione antropologica contro l’uomo e la famiglia

Le conseguenze agiscono su un piano che possiamo pacificamente definire antropologico. Alla precarietà occupazionale e alla domanda di una sempre maggiore mobilità del lavoratore, consegue l’atomizzazione della vita sociale, e l’individuo risulta impossibilitato a porre in essere relazioni durature. L’instabilità economica impedisce di poter pianificare il proprio futuro, nonché, per esempio, di chiedere un prestito per l’acquisto di una casa di proprietà, di mettere su famiglia e di generare una prole. Sembra un miraggio quanto si legge al secondo comma dell’articolo 47 della Costituzione, che delinea un modello sociale in cui è favorito l’accesso al risparmio, alla proprietà della casa, alla piccola proprietà coltivatrice, alla partecipazione azionaria.  Un modello che, peraltro, viveva in molteplici istituti giuridici già allora vigenti, e che in gran parte sono stati scalfiti dal processo sovvertitore di cui si scrive.

Ed è chiaro che, quando si difendono la proprietà, il risparmio, l’accesso al credito, si difendono sì valori di ordine economico, ma che presiedono a beni di precipuo valore morale, come la famiglia, che Cicerone nel De Officiis definiva «principium urbis» («fondamento della città») e «seminarium rei republicae» («vivaio dello Stato»), avendo ben presente come questa rappresenti la prima elementare forma di comunità, dove l’individuo si abbevera alla fonte di una solidarietà e di una eticità destinate a slargarsi nella più ampio ambito della città e della regione in cui egli vive, fino alla societas perfecta rappresentata dalla comunità nazionale. Quasi superfluo è rammentare come la famiglia sia oggi fatta oggetto, da più parti, di violente offensive volte a destrutturare tale istituto.

Due facce della stessa medaglia

Curioso poi notare come, in questo caso gli estremi (presunti) finiscono per somigliarsi. Il «capitalismo reale» – espressione con cui intendiamo l’attuale fase di un capitalismo ormai svincolato da quelle «briglie», su cui comunque per altri versi si appoggiava, costituite un tempo dalla tradizione (si pensi alla domenica come giorno di chiusura delle attività), dal ruolo dello Stato nell’economia, dal contrappeso rappresentato dai partiti e dai sindacati non allineati al modello dell’economia di mercato – presenta inconfessabili affinità con il pressoché unanimemente esecrato «socialismo reale». La stampa mainstream ha recentemente presentato come forma di «progresso», nelle grandi metropoli dell’Occidente, la nascita di complessi di micro appartamenti «modulari» dell’ampiezza di 15mq, mentre i servizi sono condivisi con gli altri abitanti. «Una scelta funzionale ed ecologica!»: così i giornalisti nostrani hanno salutato questa realtà, che a noi ricorda molto quegli squallidi palazzoni dell’Europa orientale muniti di un bagno per piano. Anche il possesso di un mezzo di locomozione privato è ormai cosa relegata al passato: tutto è in prestito, dalle auto alle biciclette, fino ai monopattini – che sono anche rispettosi dell’ambiente – qualcuno soggiungerebbe.

Una società di monadi omologate nelle abitudini di vita e di consumo, che si riducono ad un succedano dell’ethos borghese ad uso delle masse proletarizzate, è una società inidonea a creare uomini dotati di un «carattere». La proprietà, invece, valorizzata come funzione sociale prima ancora che come diritto, è presupposto necessario perché l’uomo possa esprimere compiutamente la propria personalità di homo socialis e, contestualmente, contribuire ad un armonico sviluppo della società, non disgiunto dal raggiungimento di un’elevata qualità della vita.

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