di Clemente Ultimo
Hanno fatto il deserto, l’hanno chiamato sviluppo. La parafrasi della celebre espressione con cui Tacito descrive la desolazione della Germania all’indomani della conquista romana – seppur non per benevolenza verso i vinti, piuttosto per quelle che, senza esagerazione, potremmo definire beghe politiche tutte interne all’Urbe – ben si presta a descrivere il desolante fenomeno che da anni ormai interessa le aree interne del nostro Paese, con punte da primato nelle regioni dell’Appennino meridionale e di alcuni comprensori delle isole maggiori: lo spopolamento del territorio. Una vera e propria desertificazione umana, sociale ed economica che, sebbene parte di un fenomeno globale, nella specificità italiana è figlia tanto di un modello di sviluppo sbagliato – quello, ad esempio, che ha portato alla costruzione delle “cattedrali nel deserto”, grandi impianti produttivi in aree del Mezzogiorno prive delle necessarie infrastrutture di supporto –, quanto di una colpevole cecità della classe politica nazionale, incapace di proiettare il proprio orizzonte, dunque la propria azione di programmazione e governo, oltre le più immediate scadenze elettorali.
Da questo impasto di tendenze globali, disattenzioni locali, carenza di programmazione nelle politiche economico-industriali, corruzione ed influenza della criminalità organizzata (giusto non dimenticarlo), nasce uno dei problemi più seri e più sottovalutati con cui l’Italia del XXI secolo è chiamata a fare i conti: la scomparsa di una parte del Paese. Una fetta d’Italia cancellata dalla morte delle comunità che da secoli la animano, per esaurimento demografico delle stesse. Un’eutanasia silenziosa che si traduce nella scomparsa di un patrimonio umano e tradizionale, di uno stile di vita, che rappresenta l’identità profonda del Belpaese. Una perdita gravissima non solo sotto il profilo culturale – meglio ancora spirituale -, ma anche economico: è in questa parte di Paese che sta sparendo che – come veglio si vedrà – nasce la maggior parte delle tipicità che costituiscono la ricchezza del “made in Italy”.
Prima di procedere oltre, però, appare opportuno offrire al lettore una sorta di “nota interpretativa”, ovvero la definizione di cosa si intende per aree interne. La definizione parte da quella di comune “polo”, ovvero di un centro caratterizzato dalla presenza di un’offerta scolastica secondaria superiore completa, di un ospedale sede di d.e.a. di I livello, di una stazione ferroviaria di tipo “silver”; in base alla distanza dal comune polo, dunque da una precisa offerta di servizi, si definiscono le aree interne: quelle distanti più di venti minuti dal punto di riferimento considerato rientrano in un livello intermedio, oltre i 40 periferico, oltre i 75 ultraperiferico. Un totale di 4.200 comuni, circa 13 milioni di italiani, il 22% della popolazione (dati 2018). A questi sono parzialmente sovrapponibili i piccoli comuni, quelli con popolazione inferiore a 5mila abitanti, ben 5.585 su un totale di 7.998 comuni esistenti in Italia. Di questi 5.585 quasi il 50% – 2.430 per l’esattezza – sono stati classificati come caratterizzati da disagio sociale ed economico. Non a caso la stragrande maggioranza di questi rientra nelle aree interne, soprattutto del Mezzogiorno.
Il contesto economico ed europeo
Il fenomeno di cui ci si occupa va necessariamente inserito in alcune dinamiche generali di medio-lungo periodo. In sintesi estrema lo spopolamento delle aree interne non può essere affrontato se non nella prospettiva del mancato superamento, almeno da parte italiana, della lunga recessione innescata dalla crisi economica – sempre più evidentemente strutturale e non congiunturale – nata negli Stati Uniti nel 2008. Questo contesto di (relativamente) breve periodo si innesta in una dinamica di lungo periodo – risalente almeno agli anni ’70 dello scorso secolo – in cui “i processi di globalizzazione, di innovazione tecnologica e di terziarizzazione dell’economia hanno prodotto la cosiddetta grande inversione”, come sottolinea il Rapporto Svimez 2019. Fenomeno che – prosegue il rapporto – “ha generato nelle regioni rurali, nelle piccole e medie aree urbane e nelle aree di ‘vecchia industrializzazione’ importanti perdite di posti di lavoro, una riduzione significativa della forza lavoro e una diminuzione del reddito pro capite”.
Dinamica chiamata, inoltre, a confrontarsi con la progressiva marginalizzazione dei Paesi mediterranei all’interno dell’Unione Europea, frutto anche dell’allargamento verso Est. Un processo che, per certi versi, vede quasi il superamento della tradizionale dicotomia interna italiana Nord – Sud per una, forse ancor peggiore, caratterizzata dalla polarità tra le regioni dell’Europa centro-settentrionale e l’intera Italia. In sintesi “è il sistema Paese, tutto insieme, che non è in grado di tenere il passo con le regioni europee più dinamiche” (Svimez 2019). Dato che segna non solo il fallimento delle politiche nazionali in tema di economia e sviluppo, ma anche quello del progetto di integrazione europea così come è stato immaginato e realizzato. Nord e Sud sono – drammaticamente – sempre più vicini per quel che riguarda la crescita delle disuguaglianze tra aree urbane ed aree interne.
La desertificazione
Dato per assodato che in un contesto come quello delineato in precedenza si assiste sempre più alla concentrazione degli investimenti nelle aree forti – per quel che riguarda l’Italia essenzialmente nelle regioni centro-settentrionali sempre più integrate nella catena del valore tedesco, nuovo vero “limes germanico” – non sorprende che le aree interne della Penisola, più ancora quelle dell’Appennino meridionale, siano i territori ove maggiormente si avverte la mancanza di servizi ed infrastrutture. Frutto anche della dissennata politica di “razionalizzazione” – ovvero di tagli selvaggi – realizzata nell’ultimo decennio da una serie di governi nazionali e regionali fedeli ad un unico dogma: il rispetto cieco ed acritico dei parametri economico-contabili imposti dalla Ue.
Le aree interne si ritrovano così in buona parte prive non solo delle infrastrutture minime per lo sviluppo di attività imprenditoriali – quelle che esistono e resistono lo fanno con difficoltà e costi superiori alla media, puntando su prodotti di eccellenza -, ma anche della dotazione minima di servizi per la sopravvivenza di una comunità: scuole, uffici postali, presidi sanitari. In qualche caso resiste solo – e non è oleografia da strapaese – la stazione dei Carabinieri, ed anche questa è sempre più esposta ai rischi della “razionalizzazione”.
Un dato fortemente esemplificativo di questa situazione è quello relativo alla capacità di connessione alla rete internet veloce. A fronte dell’80% delle famiglie raggiunte dalla rete di banda larga veloce (ovvero superiore a 30 Mbps) nei comuni polo, nei comuni periferici ed ultraperiferici la percentuale è inferiore al 40% (dati Openpolis ottobre 2019). Situazione non diversa, ovviamente, per le imprese.
In un contesto del genere la progressiva desertificazione economica del territorio – con le eccezioni di cui si parlerà oltre – va di pari passo con la ripresa sensibile del fenomeno migratorio, tanto verso le aree metropolitane del Paese che verso l’estero, rappresentandone spesso il presupposto, per quanto non unico. Migrazione delle giovani generazioni e solitamente, della parte maggiormente qualificata.
Desertificazione che ha un impatto devastante anche sul fronte ambientale: la scomparsa di intere comunità insediate tradizionalmente in area montana si traduce in una minore manutenzione del territorio, elemento che accentua le già gravi fragilità idrogeologiche del Paese. La presenza dell’uomo, soprattutto se legata allo svolgimento di attività economiche tradizionali, è un elemento fondamentale per la gestione del territorio, con buona pace di una vulgata ambientalista di ispirazione catastrofista e, a tratti, anti-umana.
Disastro demografico
Dal 2013 ad oggi ogni anno l’Italia raggiunge un triste primato: la riduzione del numero delle nascite. In costante calo da sette anni ormai. Dato che, unito alla ripresa del fenomeno migratorio verso l’estero, proietta ombre lunghe sul futuro demografico italiano: a tendenza costante, fra 50 anni nella Penisola vi saranno 6,5 milioni di abitanti in meno (5 milioni nelle regioni del Mezzogiorno e 1,5 in quelle del Centro-Nord). Ancor meno saranno gli italiani fra trent’anni, tenuto conto che le previsioni citate in precedenza si riferiscono agli abitanti, immigrati inclusi. Insomma, nella migliore delle ipotesi gli italiani nel 2050 saranno meno di 50 milioni: più o meno quanti ne registrava il censimento del 1951.
Inevitabilmente a risentire maggiormente del calo della popolazione saranno i piccoli centri. Lungo la dorsale appenninica e in alcuni distretti insulari il fenomeno assumerà proporzioni ancora maggiori; del resto già oggi i tassi di denatalità di queste aree sono superiori alla media nazionale. Il conseguente invecchiamento della popolazione sta creando uno squilibrio tra popolazione attiva e popolazione non attiva che già oggi, in alcuni contesti, è di fatto economicamente insostenibile, se considerato in una prospettiva strettamente locale.
Lo stesso fenomeno migratorio – da alcuni invocato come soluzione salvifica – finisce unicamente per acuire il divario tra le due realtà territoriali del Paese. Non sarà infatti quello che potremmo definire il “modello Riace” a salvare la situazione. “Importare” immigrati ripopolando i borghi dell’interno funziona, al netto di altre considerazioni, solo perché i progetti “di integrazione” vengono abbondantemente finanziati e solo fino a quando questo flusso di denaro pubblico non si interrompe. Ancora una volta, per una scelta puramente e rigidamente ideologica, non si interviene sulle cause strutturali dello spopolamento, offrendo ad una generazione di giovani italiani la possibilità di evitare lo sradicamento – con tutto quel che ne consegue sotto il profilo personale, familiare e comunitario – piuttosto si persevera in un disegno di globalizzazione ed atomizzazione della società: gli “indigeni” spinti a migrare verso la metropoli, sostituiti – fin quando durano i soldi – da diseredati provenienti dai quattro angoli della Terra.
Quanto questa “soluzione” sia illusoria lo dimostrano i flussi migratori reali: sono le regioni centro-settentrionali e le grandi aree metropolitane la meta verso cui si indirizzano gli immigrati che, legalmente o meno, entrano in Italia.
Un declino inevitabile?
La linea di tendenza disegnata dai dati attualmente disponibili e, più ancora, dalle previsioni demografiche è a dir poco devastante. Ma è anche immodificabile? Sì, in assenza di interventi immediati e strutturali e, ancor di più, di una nuova visione per le aree interne e per l’intero Paese.
Qualche segnale di una possibile inversione di tendenza, tuttavia, c’è. Anche sotto il profilo strettamente normativo: l’approvazione nel 2017 della legge per i piccoli comuni rappresenta una incoraggiante novità, sebbene a fronte di una dotazione economica chiaramente insufficiente. Rappresenta, tuttavia, un segnale positivo, almeno perché mette a fuoco una serie di campi d’intervento prioritari: dalle misure destinate alla manutenzione del territorio, ovvero alla tutela ambientale ed alla prevenzione del rischio idrogeologico, manutenzione che si concretizza anche nel recupero del patrimonio architettonico, nella messa in sicurezza di edifici pubblici (ad iniziare dalle scuole), nel miglioramento delle rete stradale. Il tutto con un occhio all’efficienza energetica.
Ancora più importanti sono, però, i segnali che testimoniano della caparbia determinazione di molte comunità delle aree interne di non arrendersi ad un declino considerato da alcuni inevitabile, puntando su un nuovo modello di economia, dal basso impatto ambientale e rispettoso dei contesti in cui imprese ed iniziative imprenditoriali sono destinate ad insediarsi ed operare. Una sensibilità patrimonio, in particolare, delle generazioni più giovani, capaci di sfruttare al meglio le nuove opportunità offerte dalla tecnologia per valorizzare al meglio la ricca dote della “piccola Italia”. Un tesoro costituito da un enorme patrimonio storico-culturale e naturalistico, oltre che da una delle più grandi risorse del “made in Italy”: le eccellenze agroalimentari. Oltre il 93% dei prodotti agroalimentari a marchio dop e ipg ed il 79% dei vini pregiati viene prodotto nei piccoli comuni.
Un bacino di opportunità, oltre che di crescita socio-economica, cui non sempre la politica nazionale e locale guarda con la dovuta attenzione. A dispetto di ciò negli ultimi anni la nascita di aziende agricole – guidate spesso da giovanissimi – caratterizzate dal recupero di aree e culture tradizionali, da una grande attenzione alla qualità del prodotto, dalla salvaguardia del contesto ambientale in cui si opera, rappresenta una delle più interessanti e promettenti novità nel contesto di cui ci si occupa.
Così come le iniziative che puntano a valorizzare le risorse storico-culturali e naturalistiche cui si è già fatto cenno. Ad iniziare dal recupero dei borghi storici, vero e proprio patrimonio diffuso del Belpaese. Un segnale interessante sulle possibilità di intervenire in questo senso è arrivato proprio nella fase più acuta della pandemia che ha caratterizzato e caratterizza questo 2020: il ricorso massiccio allo smart working – che non manca di aspetti problematici – ha consentito a molti giovani meridionali di lasciare la metropoli e far rientro nei propri paesi di origine, con un imprevisto effetto rivitalizzante sulle comunità più piccole. Certo, se l’accesso alla rete internet veloce resta quello indicato in precedenza i margini di sviluppo restano a dir poco esigui!
Altro punto forza è rappresentato dallo sviluppo di un turismo sostenibile, caratterizzato da una bassa impronta ambientale e dalla messa in rete delle risorse esistenti sul territorio. Esempi virtuosi non mancano, non possono però restare casi isolati utili solo per un servizio televisivo o un articolo su una rivista di viaggi. Occorre costruire un sistema burocratico-normativo che agevoli questo tipo di sviluppo, senza soffocarlo in culla con carichi eccessivi.
Una indicazione in questa direzione è contenuta nella già citata legge per i piccoli comuni, al cui interno sotto il profilo più strettamente economico sono contemplati interventi per la valorizzazione e la promozione delle tipicità, la semplificazione delle procedure per la creazione di alberghi diffusi, la realizzazione di itinerari turistico-culturali ed enogastronomici. Ancora una volta quel che scarseggia è la dotazione economica. Fino a quando la classe politica italiana non individuerà nella salvaguardia delle aree interne una priorità della propria azione di governo difficilmente ci sarà la possibilità di iniziare ad invertire la tendenza alla desertificazione, a dispetto degli sforzi di quei coraggiosi che, abbarbicati come querce al proprio territorio, continuano a partorire progetti ed a lavorare per realizzarli.
Non sarà facile, considerato che i partiti di centrosinistra hanno le loro roccaforti nelle aree metropolitane ed anche quella destra che pur si definisce sovranista ed identitaria non sembra particolarmente attenta al problema. Per non parlare, poi, di chi al massimo riesce ad immaginare un bonus monopattini come risposta alla pandemia.
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