Di Sandro Righini
«Le auto in marcia sono poche: Roma trabocca di antiche vetture delle marche italiane la cui produzione è interrotta, ormai, da trent’anni, ma anche quanti sono riusciti a perpetuare la funzionalità di una vecchia Punto l’usano con parsimonia: in tutta la capitale poche centinaia di famiglie possono permettersi l’acquisto settimanale del carburante, per la maggioranza dei possessori è necessario un anno di risparmi per tre o quattro escursioni estive a Fregene o a Ladispoli.
Se le automobili in marcia sono rare, la strada è contesa dalla schiera dei carretti, mossi da uno scooter o da un somaro, con i quali gli ambulanti spostano le proprie mercanzie da un mercato all’altro. All’altezza di Villa Medici il traffico viene interrotto dallo sbandamento di un gregge di capre che il pastore ha condotto ad assaporare le prime erbe sulla scarpata stradale, che un improvviso timore getta nella corrente dei motocarri, tra le grida del pastore e il latrare dei due cani, che tentano invano di ricomporre il branco destreggiandosi tra i cento veicoli»
Queste immagini, che paiono ritrarre il caotico marasma delle odierne megalopoli asiatiche, dove arcaico e moderno sono due rette parallele le quali, pur sfiorandosi di continuo, non s’incontrano mai, sono il quadro di un futuro prossimo distopico che potrebbe schiudersi di fronte a noi. Anno 2057. L’Italia è poco più che un’espressione geografica, scivolata in una novella condizione geopolitica pre-risorgimentale. Roma è una città di oltre 6 milioni di abitanti ridotta a capitale di un piccolo governo regionale e suddivisa in quartieri difesi a mano armata dalle etnie che li occupano. Il potere nell’Urbe è spartito tra il cardinal vicario, che sovraintende alla popolazione cattolica e il Gran Muftì, che governa sull’altra metà musulmana. L’Europa non è più un soggetto politico unito, ma sullo scacchiere del vecchio continente le forze predominanti sono ancora la Germania, ribattezzata Repubblica Turca di Germania, ultimo paese industriale europeo e la Francia, potenza agricola attraversata da un’aspra divisione intestina tra le aree provinciali – bianche, rurali e cattoliche – e la capitale – megalopoli nera e musulmana.
Il quadro internazionale vede la fine del predomino americano, con gli Stati Uniti ormai convertiti in gigantesca colonia agricola della Cina, nuova arbitra insieme al Giappone, il quale controlla le grandi pianure cerealicole russe, dei destini di un mondo sovrappopolato, in cui mancano risorse alimentari sufficienti per sfamare i suoi 14 milioni di abitanti. In questo complesso intrico geopolitico s’inserisce la figura di un commerciante di cereali italiano: Vico Strozzi, romagnolo sanguigno, astuto e spregiudicato fino al limite, che porterà avanti trattative su più tavoli per garantire i necessari rifornimenti di derrate ai paesi richiedenti. Una sorta di danza frenetica in crescendo sull’orlo del baratro, mentre la minaccia di una guerra atomica si farà sempre più forte nel corso della storia.
Autore di questo romanzo di fantapolitica, uscito per le edizioni Spazio Rurale nel 2005, Antonio Saltini, uno dei massimi esperti italiani di cultura agraria e autore di numerosi saggi specialistici, a cui si deve, in particolare, la redazione del poderoso Storia delle Scienze Agrarie, un unicum costituito da sette volumi che rappresentano un compendio dettagliato sullo sviluppo dell’agricoltura nel mondo occidentale, dagli albori al giorno d’oggi. In 2057 l’ultimo negoziato. La lotta per il grano che innesco lo scontro atomico finale, Saltini lancia uno sguardo su quello che potrebbe rivelarsi, non nei dettagli ma nelle linee generali, un futuro meno improbabile di quanto si possa immaginare. Le recenti vicende legate al virus Covid-19 hanno infatti dimostrato come il problema del soddisfacimento del fabbisogno alimentare non sia così estraneo anche nel cosiddetto occidente civilizzato. Abituati da lunghi anni a liquidare le varie discrepanze sorte all’interno dei nostri sistemi produttivi primari come semplici facezie o mere questioni redistributive, sono bastate le minacce di chiusura dei traffici internazionali di cereali da parte di un colosso della produzione frumentaria come la Russia, preoccupata di non avere scorte interne sufficienti, per far schizzare i prezzi del grano al di sopra di quelli del petrolio, generando un clima di panico nelle nazioni deficitarie. La sicurezza alimentare è una conquista recentissima nel lungo e tortuoso cammino dell’uomo sulla terra e, soprattutto, non è condivisa su tutto il pianeta. Non dobbiamo pensare che sia una prerogativa dei soli paesi sviluppati, perché se andassimo a scartabellare le produzioni di ogni singolo stato, scopriremmo molte più falle e carenze di quanto non risulti all’apparenza. Ci facciamo ingannare dai supermercati saturi di prodotti, ma questi sono per lo più il risultato di accordi commerciali. Le nazioni veramente sovrane e autosufficienti a livello alimentare, ovvero capaci, in caso di eventi eccezionali quali guerre o per l’appunto blocchi dei traffici commerciali, di garantire razioni alimentari sufficienti alla propria popolazione, si contano sulle dita.
Se le restrizioni innescate dal Covid-19 fossero perdurate per qualche altro mese, gli scaffali semi-vuoti dei supermercati non sarebbero stati il risultato dell’assalto di folle in preda alla psicosi, bensì l’effetto della penuria di alcune materie prime agricole necessarie alla produzione dei più comuni e semplici alimenti della dieta umana. Facciamo l’esempio dell’Italia: il fabbisogno di frumento tenero, fonti ISMEA, è coperto con la produzione nazionale per appena il 35%: Se per un qualsiasi motivo vi fossero problemi seri nel reperire il restante 65% o fosse disponibile soltanto a prezzi esorbitanti sui mercati internazionali, con cosa produrremmo il nostro pane quotidiano? Oggi si parla tanto di resilienza, termine usato per dare un tono d’importanza ai concetti espressi, ma qual è il grado di resilienza dei nostri comparti produttivi primari? C’è qualcuno che si pone questa domanda? Scriveva con grande acume Niccolò Macchiavelli: «è comun defetto degli uomini, nella bonaccia, non fare conto della tempesta» e in Italia da troppi decenni ragioniamo come se l’incedere della storia sia una lunga vacanza da preoccupazioni e responsabilità. Ecco, 2057 l’ultimo negoziato è un libro che, in forma romanzata, tenta di farci riflettere sulle tempeste che potrebbero scatenarsi a causa di un “laissez-faire” miope delle classi dirigenti odierne. In particolare di quelle della vecchia Europa, le quali hanno via via trasformato la politica agricola comunitaria, meglio nota con l’acronimo di PAC, quasi esclusivamente in una politica di tutela e salvaguardia dell’ambiente. Nobile scopo, ma che disgiunto da una politica economica volta alla produzione, porterà le nazioni europee non solo a dipendere ancora di più dalle importazioni, ma a correre seri rischi di penurie alimentari. Afflitti da un terribile inverno demografico e con una pressione migratoria crescente da sud e da est, queste potrebbero rivelarsi condizioni assolutamente esplosive. Nessuno vuol negare la necessità di traffici e scambi commerciali, anche perché è impensabile per alcuni paesi riuscire a produrre tutto sul proprio territorio, vuoi per questioni climatiche, vuoi per mancanza di spazi fisici. Ma un necessario aumento delle proprie capacità di produrre e quindi di avere scorte bastevoli a sopportare periodi più o meno lunghi di crisi, sarà prerogativa inevitabile se non vorremo che interconnessione e interdipendenza non si traducano in condizioni capestro e peggioramento del nostro status sociale.
Se un piccolo stato come Israele, ubicato in territorio semi-desertico, con una densità di popolazione al mq doppia rispetto alla già brulicante Italia, riesce a coprire quasi il 90% del fabbisogno alimentare della sua popolazione, significa che esistono concrete possibilità di miglioramento per tutti. Certo, il risultato israeliano non è un miracolo divino elargito dal cielo, ma il frutto di uno stretto coordinamento tra enti governativi, università, imprese di mezzi tecnici e aziende agricole. Un circuito virtuoso dove l’alta tecnologia riesce ad incontrarsi anche con modelli di conduzione aziendale comunitari e cooperativi come i kibbutz e i moshav. Studio, ricerca, programmazione, innovazione sono le parole d’ordine che gli stati dovranno mettere in campo nel XXI° secolo per dare risposte concrete alla sfida delle risorse. Ancora una volta solo chi saprà dare il giusto alito alla fiamma del pensiero, risorsa inesauribile dell’uomo capace di scaldare ed illuminare la sua volontà plasmatrice, vegliando affinché essa non si spenga nella notte dell’inedia o divampi nell’incendio della cupidigia, avrà in mano le chiavi del suo destino nel mondo.
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