Di Fabrizio Vincenti
Riprendiamo un pezzo di Fabrizio Vincenti apparso sul “Primato Nazionale” di gennaio 2020, che sottolinea l’importanza che la competenza, la passione, il sacrificio e le idee di partecipazione possono e devono avere di fronte agli sconvolgimenti epocali dei nostri tempi. Esempi come quello della Cooperativa Fonderia Dante sono fondamentali per il mondo del Lavoro e per la Nazione nel suo insieme, e meritano di essere studiati per alimentare il dibattito sull’uscita dalla crisi.
“Ingegnere? Si ricorda di noi: non vogliamo far chiudere l’azienda, ci dà una mano?”: sembrano gli ingredienti per una storia di fantasia, fatta su misura per un film in stile hollywoodiano. E invece è realtà. Realtà tutta italiana, precisamente veneta. San Bonifacio, San Bonifaso per i veneti: circa 21mila anime in provincia di Verona, un po’ di storia, a partire dall’abbazia romanica di San Pietro, e molta industria. E’ il Veneto profondo, quello delle fabbriche, quasi sempre a gestione familiare, anche se la loro dimensione finisce per essere mondiale. E’ qui che Dante Ferroli, negli anni ’50, accende l’epoca delle caldaie che finiscono per lanciare l’azienda in tutto il mondo per poi essere inghiottite dalla globalizzazione, dai costi di produzione, dai mercati che cambiano, degli esuberi. La storia parte da qui: dagli esuberi, dalla chiusura della fonderia del gruppo e del reparto assemblaggio della ghisa che ormai sembrano inevitabili, con gli operai che nel 2015 sono ormai da anni in cassa integrazione. Il finale sembra già scritto. Come quasi sempre. E invece, una ventina di operai non ci stanno, non ne vogliono sapere di vedere chiudere per sempre i battenti di quella fabbrica dove hanno lavorato per anni, con l’altoforno pronto a smettere per sempre di lavorare la ghisa. Parte la telefonata quasi della disperazione. A rispondere dall’altro capo del telefono c’è Erasmo D’Onofrio, dirigente sino al 2005 del gruppo Ferroli, una vita spesa in giro per il mondo, spesso con l’obiettivo di tagliare posti, di ristrutturare fabbriche, di agevolare la mano invisibile del mercato. “Parliamone, ma serve un piano industriale”, è la risposta. E’ un sì condizionato. Parte la corsa: serve una strategia di nicchia, visto che le caldaie in ghisa sono ormai un prodotto per pochi, serve provare a trovare altri mercati di sbocco, ma serve produrre comunque 100mila pezzi in ghisa per stare in piedi. Nel 2017, grazie al concorso della Regione Veneto e della Legacoop, l’esperimento può partire. A luglio nasce la Cooperativa Fonderia Dante che eredita il reparto dalla Ferroli e che del suo fondatore prende il nome: i dipendenti mettono la loro indennità di disoccupazione per riaccendere i forni. Quasi 2 milioni di euro. Mettono loro stessi.
“Sono arrivato gratis – spiega D’Onofrio, ora amministratore delegato – gli operai mi hanno cercato per disperazione dopo anni di cig e mobilità e hanno rinunciato agli ammortizzatori per provare a vivere del loro lavoro. E’ stato un piccolo gruppo di loro, quasi una aristocrazia operaia che ha guidato gli altri più inclini a arrendersi, gente che quando c’è stata l’alluvione da queste parti, era con le idrovore a togliere acqua. Il momento più drammatico è stato quando si doveva firmare il passaggio e la Ferroli non si decideva, la fonderia volevano venisse chiusa. I 63 soci iniziali sono venuti sotto le finestre a urlare che avrebbero fatto casino se non arrivava la firma. Drammatico e indimenticabile: vedere sotto gli operai che vedevano sfuggire il traguardo di poter dare continuità al proprio lavoro. Ma ce l’abbiamo fatta, anche grazie alle banche etiche, all’assessore del Veneto Elena Donazzan, una persona straordinaria, come un grande aiuto c’è giunto dalla Legacoop che ha creduto nel progetto”.
E’ il luglio del 2017: parte la scommessa che la CFD ha provato a vincere con il “terzismo” e diversificando la produzione: accanto alle caldaie non marchiate, ecco i dischi frenanti in ghisa. Nel 2019 con 50mila caldaie e 700mila dischi frenanti sono stati raggiunti i numeri che servivano per stare in piedi e un fatturato di 15 milioni di euro. Oggi ci lavorano 97 persone, la maggior parte delle quali sono socie della cooperativa, le produzioni sono dirette in tutto il mondo, meno che in Italia, ma l’intenzione è rilevare un marchio per distribuire anche qui le stufe, per le quali si è provveduto ad acquistare un brevetto francese che consente di produrle a condensazione e in ghisa, garantite 10 anni. Investimenti per 8 milioni di euro, un’assemblea dei soci che sono gran parte dei dipendenti, un cda e un amministratore delegato con i sindacati che forse non hanno sempre capito che gli operai sono soci. Sono i “padroni”. E un nome che richiama lo storico proprietario unito al marchio in tricolore. “Volevano dare un’impronta del made in Italy, visto che siamo una delle due fonderie italiane ancora aperte e volevamo un richiamo alla nostra storia – conclude D’Onofrio – mi sono chiesto tante volte perché ho accettato. La spiegazione che mi sono dato è che abbiamo ecceduto con la globalizzazione: era ora di difendere la classe media e evitare che San Bonifacio fosse desertificata. Insomma, generare valore per questa comunità, il nostro territorio ha bisogno di industrie, di lavoro. Quanto a me, forse sto espiando l’aver fatto per 35 anni chiusure e tagli in giro per il mondo”.
Lascia un commento