Come a Primosole: Pavese, Italiano totale

Come a Primosole: Pavese, Italiano totale

di Andrea Scaraglino

La solitudine agostana di una camera d’albergo, il vuoto atavico nel suo animo, che da decenni lo rendeva il sublime poeta e romanziere che tutti conosciamo e allo stesso tempo l’eterno fanciullo incapace di crescere – “Ho imparato a scrivere, non a vivere.”1– non lasciarono scampo al mestierante della vita. Cesare Pavese, poeta, narratore, traduttore ed editore ci lasciò assumendo una massiccia dose di sonnifero. Venne ritrovato l’indomani da un inserviente dell’hotel; steso sul letto, una mano artigliata al petto e un’altra a lambire il pavimento, quasi a voler rimarcare il continuo dissidio interiore che per tutta la sua vita lo aveva tormentato: farsi capire, accettare e amare dal resto del mondo: “La mia parte pubblica l’ho fatta, ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti.”2

Del resto, la vena poetica romantica che ha contraddistinto il lavoro di una vita, di cui «il verso lungo pavesiano» è esempio primo, in epoca di cesura come quella che il nostro viveva – con il neorealismo pronto a scalzare la vecchia scuola romantica e spirituale rivivificata nell’idealismo di gentiliana memoria – poteva sicuramente far sentire fuori posto chi istintivamente sentiva su di sé la responsabilità di procrastinare un’inevitabile fine: “Stendhal non è nato troppo tardi, ma troppo presto.”3

Altro fatto da inserire all’interno dell’inesplicabile equazione che è stata la vita di Pavese è sicuramente il carattere introverso, spigoloso e estremamente “bastian contrario” dell’uomo. Attitudini intime quest’ultime che lo segnarono profondamente, rendendolo incapace di scendere a patti con il mondo circostante e, conseguentemente, relegandolo in una solitudine d’animo difficile da esprimere se non con le sue parole: “La sola regola eroica: essere soli, soli, soli. Quando passerai una giornata senza presupporre né implicare in nessun tuo gesto o pensiero la presenza di altri, potrai chiamarti eroico.”4

Questa eroicità bagnata in salsa nietzschiana, ponderata durante la traduzione dei classici del filosofo tedesco, mai banale e anzi, vissuta con enorme senso di colpa data la difficoltà nel perseguirla, ci spinge al cuore del nostro studio.

Il Taccuino segreto

Trent’anni fa, tra un putiferio di rimostranze più o meno sentite, veniva pubblicato sulle colonne de La Stampa il “Taccuino segreto” di Cesare Pavese. La storia della letteratura italiana ha sicuramente un debito di riconoscenza nei confronti di Lorenzo Mondo. Un giornalista letterario che, rotti gli indugi di una vita, decise – di comune accordo con gli eredi dell’autore – di far rivivere il lato più nascosto di Pavese.5 Un lato politico, sorprendente e inatteso. Lontanissimo dalla mitizzazione post mortem e di per sé inopinato, data la scarsa attenzione che l’autore ha sempre dimostrato per la politica attiva: “Il tuo disinteresse per la politica, famoso!”.6

Quale Pavese traspare, dunque, dalle pagine del Taccuino? Cosa spinse l’autore di queste incredibili pagine a non pubblicare mai pensieri così profondi e circostanziati e allo stesso tempo a non disfarsene se non avessero rappresentato un’autentica parte di sé?

Andiamo con ordine e cerchiamo di rispondere a queste domande, sintomi di un travaglio personalissimo e di un popolo tutto: “Semplicemente ora hai scoperto dentro – sotto la spinta del disgusto – il vero interesse che non è più le tue sciocche futili chiacchiere ma il destino di un popolo di cui fai parte. Boden und Blut – si dice così?”.7

Il motto “terra e sangue” appena riportato, coniato dal ministro dell’agricoltura nazionalsocialista Walther Darrè, ci spalanca le porte di un abisso personale inimmaginabile ma che nei suoi contorni così nitidi difficilmente può essere derubricato a “male di vivere” come certa letteratura ha tentato di fare. Per chi scrive, il “pavesecidio”8 non è avvenuto al momento della pubblicazione del taccuino, ma nell’incensazione forzata tramite essenze ben precise; spinto a forza nel pantheon degli scrittori antifascisti della prima ora, Pavese fu spogliato della sua complessità, riducendo uomo e poetica a semplice somma aritmetica: uomo di lettere + resistenza = bandiera intoccabile. Questa divinizzazione, molto comune nel secondo dopoguerra,9 sintomo della morsa totalitaria in cui la cultura italiana si stava per stritolare, non solo volle piegare la realtà a un interesse politico ben preciso ma, soprattutto, negò al pubblico la profonda e autentica visione d’insieme che Pavese ci volle donare tramite la sua esperienza di vita e, dunque, professionale. Se è vero che il taccuino venne pubblicato postumo è altrettanto vero che la patina mitizzante imposta sul personaggio oscurò molti rimandi ai temi del taccuino che permangono nelle opere del nostro: “Che la guerra risani il mondo rinnovandolo può darsi sia vero. Ciò nascerebbe dal fatto che in tempo di guerra si impara a vivere auspicando al domani […] e non si è attaccati al tempo come avari. Si vive cioè come i giovani.”10

Parole inaspettate

Osserviamolo più da vicino ora questo block notes, cerchiamo di capire quale possa esser stato l’impatto di certe esternazioni sulla comunità letteraria italiana dell’epoca.

Gli appunti componenti il taccuino coprono uno spazio di tempo limitato, corrono dalla metà del ’42 fin quasi alla fine del ’43 e racchiudono il giudizio di Pavese su temi più o meno inerenti quei tragici mesi: “Noi siamo entrati in guerra poco preparati eppure resistiamo da due anni. Chi l’avrebbe detto? Quando sarà finita dovrai rivedere tutte le tue idee sull’anima nazionale. Non sapevi che esisteva eppure eccola!”11 Parole di facile comprensione e che non lasciano spazio a interpretazioni di sorta, del resto, tutte le annotazioni componenti il taccuino sono lapidarie e caustiche, totalitarie, gentilianamente parlando. È un crescendo: “Una cosa fa rabbia. Gli antifascisti sanno tutto, superano tutto, ma quando discutono litigano soltanto… E mostra ben che alla virtù latina o nulla manca o sol la disciplina…Il fascismo è questa disciplina. Gli italiani mugugnano, ma insomma gli fa bene.”12

In entrambe le citazioni appena riportate si scorge la celebrazione da parte di Pavese della visione idealista dello Stato e del cittadino che ne faceva parte. Le parole di Giovanni Gentile possono aiutarci a comprendere meglio: “Lo stato moderno è popolo consapevole del valore della propria personalità, perché tutti gli individui che lo formano si sentono una sola volontà e una sola coscienza; e in questa consapevolezza trova la ragione della sua autorità. E la personalità dello Stato ha tale valore, perché è la stessa personalità dell’individuo conscia della propria personalità.”13 Una visione idealista della vita sociale della Nazione che chi ha studiato il fascismo in profondità conosce bene e che lo stesso Pavese dimostra di comprendere appieno già nel 1926; un estratto del taccuino giovanile del nostro recita testualmente: “Ecco che spiego la posizione del fascismo. Dopo tutti i tentativi ottocenteschi di posare lo spirito umano, tentativi, per la loro natura stessa, praticata da singoli individui, disillusi, si cerca ora di risolvere il problema di colmare l’esistenza, slargando l’individuo alla nazione e dandogli insieme certa durata maggiore della mortale.”14

Questi pochi accenni al cuore del taccuino ci lasciano un’immagine netta di Pavese; un uomo conscio delle limitazioni politiche dell’Italia liberale e che, come in un amarcord politico, le rivedeva riaffiorare all’interno delle estenuanti sessioni di onanistica autoreferenzialità del Cnl dell’epoca. La scelta di difendere l’operato, o quantomeno l’impostazione ideologica, del fascismo è figlia di una visione pragmatica della politica e più che un’intima accettazione, vivifica una speranza di riscatto nazionale che l’antifascismo, troppo litigioso e facilone, non sembrava poter assicurare. Soprattutto il ritorno alle origini socialisteggianti e repubblicane del fascismo faceva ben sperare Pavese che senza fronzoli scriveva: “Il Manifesto di Verona – purché sia sincero – mostra la tendenza che qualcuno auspicava da anni. Nessuno può negare che di fronte all’inconcludenza di agosto [governo Badoglio], esso affronti la responsabilità. Purché sia sincero. Perché non dovrebbe esserlo? Siamo in un momento in cui non abbiamo nulla da perdere e tutto da guadagnare. Tutto. Solo gli antifascisti sanno il pregio del fascismo: tutto ciò che loro manca. E s’è visto che mancano di tutto.”15

Sembra di leggere un editoriale di Pound sul Popolo di Alessandria, ma tant’è! La netta scelta di campo fatta da Pavese in quei mesi, comunque, non deve sorprendere, anzi. La realtà politica dell’epoca, a dispetto dell’artefatta narrazione storica perpetuata della vulgata resistenziale, fu molto più liquida e sorprendente di quanto si possa pensare. Pavese, come italiano, non fece eccezione a questa sorta di stordimento collettivo e come ci ricorda Renzo De Felice fu in ottima e nutrita compagnia: “Sino ai primi mesi del ’45 -quando fu chiaro che il crollo tedesco e della Rsi e la fine della guerra erano imminenti – continuarono a verificarsi oscillazioni e persino casi di passaggi da un campo all’altro. E aiuta a capire anche tante metamorfosi degli ultimi giorni, il gonfiarsi a dismisura delle file partigiane e il trasformarsi in rossi di tanti fino a pochi giorni prima neri.”16

Il netto interrompersi delle note del taccuino con la fine del 1943 ci fa pensare che la lettura dello storico reatino sia la più calzante. A onor del vero, De Felice dedica due pagine intere della sua monumentale biografia mussoliniana alla vicenda del taccuino,17 ma la lettura finale che ne scaturisce sembra fin troppo partorita ad personam e scollegata dalla visione comunitaria degli anni della guerra civile che in altre sedi ci ha voluto lasciare. Insomma, sembra fin troppo prona al bisogno psicologico dell’accademia italiana di non “insozzare” la memoria del poeta, accomunando quest’ultima al peccato originale del fascismo e del conseguente, troppo popolare, “primum vivere18 che la nazione italiana ha deciso di incarnare per superare indenne (sic!) la tempesta del secondo conflitto mondiale.

Un italiano “totale” oltre le mistificazioni?

Ecco dunque svelarsi il perché del titolo di queste poche righe: Pavese, italiano totale, con tutti i pregi e i difetti che questo sottintende. La rappresentazione plastica del dramma di un popolo tutto nel corpo e nell’anima di un suo figlio, forse troppo debole, per poterne portare il peso da solo. Antifascista estetico e apolitico etico: gli ultimi e variegati tentativi di assoluzione del nostro da parte del mondo letterario nostrano raggiungono il parossismo. Dunque, seguendo il concetto di fondo, si potrebbe dire che Nicola Bombacci fu un fascista antiestetico e un politico amorale: cancelleria bizantina.

La sua successiva biografia ci viene in aiuto, l’iscrizione al Pci, quasi una prebenda in quegli anni, il mito del Pavese «cattivo compagno», i rimandi a un’umanizzazione del nemico sconfitto – i repubblichini morti ne “La casa in collina” – il suo tentativo continuo e quasi morboso di ritrovare nella sfera privata quella sintesi che gli è sempre mancata a livello pubblico – “E anche lei finisce allo stesso modo. Anche lei. Va bene. Sono onde di questo mare.”19– descrivono perfettamente il senso di estraneità che l’autore deve aver vissuto negli anni del secondo dopoguerra. Alla base della tragica e spirituale scelta finale si ritrova la castrazione della sua «volontà di potenza» – “Ti sembra bello correggere bozze e rivedere manoscritti mentre tuoi compagni di scuola sono morti in mare, terra, cielo?”20 – confluita in un’epidermica dissonanza politica con il gioco della parti democratico, tanto da far dire al suo compagno di partito Carlo Muscetta: ”Eppure Pavese aveva confusamente avvertito che solo una società nuova, omogenea, [leggi totalitaria] avrebbe potuto raggiungere quella fusione di realismo e simbolismo che egli perseguiva.”21

“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.”22

Chi scrive spera di essere perdonato dal diretto interessato per queste quisquilie e lo ringrazia per la sua testimonianza d’italianità così autentica che ci inchioda al crudele destino di vedere gli «occhi» della «morte» nel «nulla» del nostro futuro nazionale.

Note

1 Pavese C., Il mestiere di scrivere, a cura di Fabrizio Parrini, Edizioni Clichy, Firenze 2020, p. 101.

2 Ivi, p. 83.

3 Pavese C., Il taccuino segreto, Aragno Editore, 2020, Torino, p.17.

4 Pavese C., Il mestiere, cit., p. 100.

5 Mondo L., Pavese perduto e ritrovato, in Il taccuino, cit., p. XXI.

6 Pavese C., Il taccuino, cit., p. 19.

7 Ivi.

8 Ivi, p. X.

9 In merito consultare Festorazzi R., Caro duce ti scrivo – Il lato servile degli antifascisti durante il ventennio, Ares Edizioni, Roma 2012. Ad esempio: “Eccellenza! Vostra Eccellenza vorrà perdonarmi se oso rivolgermi direttamente a lei…Io Norberto Bobbio di Luigi, nato….” (p. 81).

10 Pavese C., Il mestiere di vivere 1935 – 1950, Einaudi, Torino 1990, p. 321.

11 Pavese C., Il taccuino, cit., p. 5.

12 Ivi. p. 7.

13 Sideri R., Con Mussolini e oltre. Giovanni Gentile da Marx alla destra postfascista, Settimo Sigillo, 2020, Roma, p. 129.

14 Pavese C., Il taccuino, cit., p. 16n.

15 Ivi, p. 21.

16 De Felice R., Mussolini l’alleato II – La guerra civile (1943-1945), Edizione “Il Giornale”, Milano 2015, p. 105.

17 De Felice R., Mussolini l’alleato I – Crisi ed agonia del regime (1940-1943), Edizione “Il Giornale”, Milano 2015, pp. 1367–1368.

18 De Felice R., Il Rosso e il nero, Baldini & Castoldi, Milano 1995, p. 56.

19 Pavese C., Il mestiere di scrivere, cit., p.133.

20 Pavese C., Il taccuino, cit., p. 8.

21 Ivi, p. LXXIIIn.

22 Pavese C., Il mestiere di scrivere, cit., p. 137.

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