di Francesco Guarente
Da qualche giorno circola in rete un manifestino, una sorta di locandina, a firma del Partito Democratico in cui si chiede a gran voce una legge contro le delocalizzazioni. Al netto del meme in cui si trasforma la propaganda PD in merito a questioni legate al lavoro, la faccenda è purtroppo seria. Oltre il sorriso che può strappare l’idea del simbolo del partito del Nazareno, il problema delle delocalizzazioni è estremamente attuale ed importante per il futuro produttivo e lavorativo del nostro Paese.
I casi in Italia sono tantissimi, gli ultimi che hanno ottenuto risalto, grazie alle lotte dei lavoratori, sono stati la Whirpool di Napoli e la GKN di Firenze, ma anche Speedline e Caterpillar vivono situazioni simili. I numeri delle crisi industriali sono pesantissimi.
Nel periodo 2015-2017, circa 700 imprese con oltre 150 dipendenti hanno trasferito all’estero attività o funzioni aziendali precedentemente svolte in Italia[1], di queste il 62% ha trasferito parte della produzione esclusivamente per ridurre i costi del lavoro. Questo dimostra che la stragrande maggioranza delle aziende, soprattutto le grandi imprese, delocalizzano non per salvare il salvabile, ammesso e non concesso che sia opportuno come approccio industriale, ma lasciano l’Italia esclusivamente per abbattere i costi del personale e ampliare i propri profitti. Qualcuno potrebbe replicare che è naturale che una azienda faccia profitto, che voglia aumentare i guadagni. Non è propriamente così, poiché il profitto come unico scopo, che devasta territori e comunità non ha nulla di naturale ed è in contrasto con l’articolo 41 della Costituzione. Del resto la funzione sociale del lavoro, anche quello imprenditoriale, è sancito proprio dalla carta costituzionale. La funzione primaria del lavoro non è soltanto economica, ma anche e soprattutto utile alla crescita della collettività, che sia svolto da un manuale o da un’impresa.
E’ senza dubbio vero che è compito delle autorità dello Stato studiare le dinamiche economiche che spesso portano alla delocalizzazione, per intervenire in anticipo ed aiutare soprattutto le piccole imprese, ma allo stesso tempo è dovere delle istituzioni della Repubblica evitare la desertificazione dei territori frenando le delocalizzazioni indotte per mero ed esclusivo aumento del profitto.
Un caso esemplare di questi giorni è quanto accade nelle Marche, a Jesi, con Caterpillar. L’azienda statunitense ha deciso di delocalizzare la produzione dei cilindri oleodinamici all’estero. La motivazione per cui Caterpillar vuole chiudere Jesi non è legata alla crisi della domanda, la quale è aumentata[2], ma esclusivamente per produrre a basso costo i suoi cilindri per triplicarne il profitto. In sostanza i 270 dipendenti marchigiani, nonostante gli ottimi risultati, sono del tutto sacrificabili sull’altare del profitto senza se e senza ma, spacciando il tutto per libertà imprenditoriale.
In un articolo per il Bollettino di Adapt, Giuliano Cazzola, commentando la prima bozza del decreto anti-delocalizzazione afferma testualmente “…la prima bozza che era circolata durante l’estate aveva creato qualche preoccupazione, in chi è convinto che non esistano libertà politiche in mancanza o in costrizione di libertà economiche[3]”. Queste presunte libertà, però, valgono per tutti e chiudere una fabbrica senza una reale necessità, distrugge le libertà economiche dei lavoratori azzerando per loro anche quelle politiche.
L’Istat ha pubblicato nel novembre del 2021 un report dal titolo “Struttura e competitività delle imprese multinazionali[4]” con riferimento al 2019. Ebbene le multinazionali estere sono attive in Italia con 15.779 controllate. Rispetto al 2018, il numero di addetti cresce di oltre 64mila unità (+4,4%) ed il fatturato è aumentato del 5%, mentre la spesa in ricerca e sviluppo è cresciuta del 14,7%. Questo evidenzia l’importanza della presenza di investimenti stranieri nel nostro paese, proprio per questo non possiamo permettere che con estrema facilità possano lasciare i nostri territori desertificandoli. Non basta la paura che una norma che limiti le delocalizzazioni possa frenare gli investimenti esteri, perché approcciando così alla questione si rischia di trasformare il paese in una “prostituta industriale”. Cerchi di convincere tutti a venir da te per l’assenza di regole stringenti, ma basta l’ingresso nel mercato europeo di un paese dell’ex blocco socialista per chiudere l’idilliaco amore con la società di turno.
Questi dati indicano l’importanza di una norma che possa tutelare quei numeri, per i lavoratori e per il Paese. Significa in sostanza che la politica e lo Stato devono agire, intervenire e giocare un ruolo importante, non solo nell’agone internazionale tra Stati, ma anche ponendosi con forza ed intelligenza con le società italiane e straniere. Inoltre lo stesso dossier evidenzia un altro dato importantissimo, tra i primi tre paesi di provenienza delle maggiori società straniere che operano in Italia ci sono gli Stati Uniti, la Francia e la Germania. Il legame con questi paesi è importante, ma ancora una volta la necessità dell’intervento della politica nel settore industriale è essenziale in virtù dei dati settoriali presenti nel dossier, dove la Francia è in testa nell’industria non manifatturiera, in particolar modo settore energetico, estrattivo e finanziario. Un paese con una visione non limitata deve utilizzare tutti gli strumenti utili per evitare la perdita di posti di lavoro e di aziende strategiche.
Il 17 dicembre scorso è circolata la bozza, forse definitiva, del decreto anti-delocalizzazioni, rinominato “Disposizioni in materia di cessazione di attività produttiva” proposto dall’attuale Ministro del lavoro Orlando (PD) e dal viceministro allo Sviluppo Economico Alessandra Todde (M5S). Il decreto, rivisto per le pressioni di Confindustria[5], in sostanza prevede una lunga procedura di accompagnamento alla chiusura della fabbrica e all’accesso agli ammortizzatori sociali più che una reale deterrenza alla delocalizzazione. Il decreto è indirizzato alle società con più di 250 dipendenti a tempi indeterminato che intendono procedere alla chiusura per ragioni non determinate da squilibrio patrimoniale o economico-finanziario. Gli obblighi previsti sono una comunicazione preventiva che indichi le ragioni della chiusura ed il piano programmato dove l’azienda è tenuta ad analizzare e proporre un progetto che limiti i danni ai livelli occupazionali tramite la ricollocazione presso altra impresa o attraverso le misure di politica attiva del lavoro. Il piano verrebbe esaminato da un organo terzo, il quale confrontandosi con l’Anpal e le organizzazioni sindacali dovrebbe approvare il progetto di dismissione. Una volta approvato l’azienda può iniziare l’iter di chiusura attuando però il piano di cui prima. Qualora non dovesse rispettare le procedure o non essere approvato il piano, la società potrà portare a termine la procedura di chiusura subendo penalizzazioni economiche per ogni lavoratore licenziato. In sostanza è una razionalizzazione delle procedure di chiusura e delocalizzazione, che per quanto riguarda le grandi multinazionali non credo possa impattare sui loro bilanci il timore di una sanzione pecuniaria.
La versione iniziale del decreto prevedeva sanzioni sul capitale dell’azienda, molto più invasive seppur rispettose della libertà d’impresa. L’iniziale proposta era nata dall’iniziativa del Comitato di Fabbrica della GKN aiutato da giuslavoristi scesi in campo con i lavoratori toscani.
Naturalmente non sempre ogni crisi industriale si trasforma in chiusura definitiva della fabbrica e perdita di centinaia di posto di lavoro. Oltre le norme, che sono necessarie, quello che conta è la presenza delle istituzioni e della politica, sia essa dello Stato centrale o delle Regioni. Un caso interessante è quello della Regione Veneto che dal 2012 attraverso l’Assessorato al Lavoro, guidato da Elena Donazzan (FdI) dal 2005, ha lanciato il progetto “Unità di Crisi aziendali, territoriali e settoriali” istituito con decreto del Dirigente della Direzione Lavoro (n.1503 del 24 novembre 2011).
Tra i compiti dell’Unità di crisi c’è lo studio e stesura dei piani sociali previsti nel caso di ristrutturazione di grandi gruppi industriali, sperimentazione di procedure innovative di ricollocazione e reindustrializzazione, attuazione di strumenti innovativi per favorire azioni di reindustrializzazione quali strumenti strategici anticrisi, controllo e monitoraggio per le crisi territoriali che coinvolgono la micro, piccola e media impresa. Inoltre monitorare le politiche industriali e settoriali del territorio regionale, valutando le ricadute delle crisi aziendali sull’occupazione.
Altro elemento interessante è il tentativo di incidere sugli scenari di sviluppo del sistema produttivo veneto per garantire nuove opportunità occupazionali, sostenendo il rilancio di attività imprenditoriali e tutelando i livelli occupazionali. Soprattutto come detto precedentemente introducendo sistemi innovativi, come le cosiddette aziende rigenerate o “Workers buyout”, cioè acquisite direttamente dai lavoratori e rilanciate dagli stessi, ad esempio la Cooperativa Fonderia Dante di San Bonifacio[6] (VR). Inoltre l’Assessorato tramite l’Unità di crisi offre una vera consulenza che valuta e prende in carico il caso aziendale, coordina gli attori istituzionali e monitora lo stato di avanzamento.
Alcune crisi importanti, gestite dall’Assessorato con l’Unità di crisi, sono state quella della multinazionale Unilever a Sanguinetto, conclusasi con la cessione dello stabilimento agroalimentare alla società altoatesina Menz&Gasser conservando tutti i posti di lavoro e le maestranze settoriali, ed il caso Ideal Standard. La multinazionale leader del settore degli igienici e sanitari nel 1999 acquisisce la storica realtà Ceramica Dolomite di Trichiana, frazione del comune di Borgo Valbelluna nel bellunese. La società, controllata da un fondo[7], ad ottobre di quest’anno ha dichiarato la volontà di chiudere l’ultimo stabilimento italiano per produrre altrove a costi più bassi, considerando in sostanza il costo del lavoro unico deficit della bassa produttività. Ad ogni modo l’azione sindacale, iniziata il 16 di ottobre, con il sostegno della cittadinanza e dell’Assessore Donazzan sono riusciti a frenare la dissoluzione di un polo produttivo di oltre 500 dipendenti. Primo risultato importante è l’istituzione del tavolo ufficiale presso l’Unità di crisi della Regione Veneto, l’individuazione di un consulente da condividere con il tavolo istituzionale, ma soprattutto la disposizione dell’azienda di cedere il marchio storico di Ceramica Dolomite, fattore essenziale sotto l’aspetto commerciale per la ripartenza. La fase è stata seguita e monitorizzata dall’Unità di crisi in costante contatto con le rappresentanze sindacali, l’azienda ed il Mise, dimostratosi secondo l’Assessore Donazzan completamente inattivo e mero organo verbalizzante.
In sostanza il Caso Ideal Standard dimostra non solo la necessità di una norma stringente in merito alla questione delocalizzazioni, ma soprattutto che una presenza costante delle istituzioni, anche prima delle crisi, sia necessaria per evitare la morte industriale del Paese.
[1] Istat, Report Trasferimento all’estero della produzione 2019, pag. 2
[2] https://www.ilprimatonazionale.it/economia/caterpillar-chiude-260-licenziamenti-218178/
[3] G. CAZZOLA, Guerra alle delocalizzazioni? Va avanti tu che a me viene da ridere, in Bollettino ADAPT 20 dicembre 2021, n. 45
[4] https://www.istat.it/it/files//2021/11/Report-Multinazionali-2019.pdf
[5] https://www.huffingtonpost.it/entry/il-decreto-anti-delocalizzazioni-e-diventato-acqua-fresca_it_61bddad8e4b0bcd2193f8ce0
[6] Casi come la CFD ci sono in tutta Italia, altro esempio vincente è la Italcables di Caivano (NA)
[7] https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/10/28/ideal-standard-vuole-chiudere-a-tirchiana-500-posti-a-rischio-i-sindacati-azione-speculativa-del-fondo-proprietario-sara-una-mattanza/6372158/
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