FUTURISMO SOCIALE E DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA CONTRO LA LEGGE FERREA DELL’OLIGARCHIA FINANZIARIA

FUTURISMO SOCIALE E DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA CONTRO LA LEGGE FERREA DELL’OLIGARCHIA FINANZIARIA

Articolo apparso su “La Voce del Patriota”

DI Francesco Carlesi

Mosca, Pareto e Michels furono tre grandi pensatori del primo ‘900 che studiarono l’influenza delle oligarchie dietro i processi democratici. Michels parlò di «legge ferrea dell’oligarchia» secondo la quale interessi privatistici di gruppi organizzati e “nascosti” si sarebbero sempre affermati in ogni partito e sistema politico. Sono concetti che non hanno perso validità, anzi sembrano descrivere la stringente attualità della crisi della politica e della società. La democrazia liberale e rappresentativa negli ultimi anni ha acuito queste tendenze negative: l’individualismo e il mercatismo hanno ridotto il rapporto tra autorità e popolo a produzione e consumo, disgregando le idee di partecipazione politica e spirito comunitario che sole mandano avanti le collettività. Le masse sono sempre più isolate, apatiche, depoliticizzate, incapaci di animare un dibattito sulle grandi questioni del futuro. Ecco che la gavetta politica si effettua non più nei territori o nelle scuole di partito, ma nel mondo delle banche, della finanza e delle multinazionali. Si tratta dello stesso mondo che produce le oligarchie che dettano legge incontrastate, legittimate dall’idea della tecnica, secondo cui ogni decisione dell’esperto è oggettiva, perfetta, quasi obbligata. Davanti a questo il cittadino comune è disarmato, se solo prova a opporsi alle decisioni «tecniche» ecco che arriva l’etichetta di “sovranista”, ignorante o razzista. L’insediamento di Draghi, incensato dai media il più delle volte controllati da oligarchie di potere (dai gruppi bancari agli Agnelli, si legga in merito «Prepotere» di Flaminia Camilletti), ha risposto proprio a questo dettato. Il banchiere ex Goldman Sachs è stato così dipinto quale il salvatore della Patria, un’entità quasi divina che si è affermata attraverso una «volontà extracostituzionale», come ha candidamente scritto Galli Della Loggia sul «Corriere della Sera». Il quadro che emerge è quello di una democrazia rappresentativa in crisi nera, con il parlamento sempre più marginalizzato e incapace di rappresentare le istanze popolari, se pensiamo che il voto del 2018 aveva chiaramente “parlato” in direzione antieuropeista, mentre oggi ci troviamo come primo ministro l’ex governatore della Bce. La nostra democrazia fredda e procedurale ha lasciato le decisioni agli “amministratori” svuotando i partiti e le possibilità di fare cultura, opposizione, progetti di lungo termine.

Spiritualità e futurismo sociale per una democrazia partecipativa

Per uscire da queste secche e limitare il potere delle oligarchie la risposta non può essere solo conservatrice o impostata sulla difensiva. Bisognerebbe osare andando in direzione della democrazia partecipativa, che rilanci l’idea di Patria quale destino comune e di partecipazione politica quale linfa vitale per la società. Allo stesso modo, la partecipazione dovrebbe estendersi in ambito aziendale, per l’attuazione dell’art. 46 della Costituzione: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Sarebbe un passo importante per “cavalcare” l’innovazione (che altrimenti sarà appannaggio delle multinazionali statunitensi e cinesi) attraverso processi di coinvolgimento dei lavoratori nei meccanismi di gestione delle imprese; promuovendo la crescita, la responsabilizzazione e la valorizzazione delle conoscenze dei lavoratori. Tutto questo potrebbe inoltre favorire il legame delle imprese con il territorio (arginando le delocalizzazioni che tanto negativamente hanno pesato nel tessuto sociale nazionale) e aprire la strada a nuove forme di relazioni industriali e di crescita comunitaria, passaggi obbligati per non finire ulteriormente polverizzati dalle influenze delle oligarchie nazionali e internazionali. Le categorie, le associazioni e il variegato mondo dei “produttori”  e dell’economia reale, spesso umiliati dal governo e scavalcati dalle task force, dovrebbero essere rivalutati e coinvolti pensando a una riforma del Cnel se non a una vera e propria seconda Camera del lavoro che “politicizzi” le competenze in un quadro di trasparenza, responsabilità, sacrificio e spirito comunitario che proverebbe a ridare finalmente dignità ai cittadini.

Il tutto andrà vivificato da un vero e proprio sforzo spirituale che recuperi la migliore tradizione che affonda le sue radici nell’interclassismo di Mazzini e arriva fino al nazionalismo e al futurismo sociale di uomini come Enrico Corradini, Filippo Carli e Filippo Tommaso Marinetti. Gaetano Rasi e la sua “destra sociale” del dopoguerra recuperarono esplicitamente questo patrimonio, e in un suo articolo di 50 anni fa dedicato a Mazzini possiamo ritrovare tanti spunti di straordinaria attualità:

«L’attuale problema italiano è un problema di “recupero” e di “impegno”. E’ necessario recuperare quelle forze – spesso generose – che oggi sono rivolte alla furia distruttrice, strumentalizzata certamente, ma esplicata anche in odio alle ingiustizie, alla corruzione, alla inefficienza volute o permesse da oligarchie privilegiate, mimetizzate dietro lo schermo della tirannide partitocratica. Lungo questa strada il pensiero altamente educatore di Mazzini ci può essere di guida, come di esempio ci deve essere l’impegno della sua predicazione. Gli italiani d’oggi soffrono di una forma di stanchezza che non proviene dalla saturazione delle esigenze, ma è insoddisfazione e insofferenza. Il disimpegno è nato come filosofia predicata dai partiti “fondatori” del regime e si esprime attraverso gli appagamenti individualistici, il cozzo degli egoismi, la comparazione dei possessi materiali. La misura degli uomini, nella reciproca considerazione, è data esclusivamente dalla quantità di cose che si possono esibire e il successo si valuta soltanto in termini di quantità monetarie.

La carica pubblica è considerata punto d’arrivo per la distribuzione di favori e di ricompense alle clientele, invece che dovere e servizio verso la collettività. Si parla di «esercizio del potere» invece che di «esplicazione del comando», mettendo l’accento appunto sui vantaggi derivanti dalle posizioni di vertice invece che sugli obblighi incombenti a chi dirige e dispone. Di qui l’insoddisfazione e l’insofferenza che producono, in sede sociale ed economica, l’abbandono del lavoro, la «disaffezione» verso le attività imprenditoriali, il rifugio nell’assistenza della finanza pubblica di intere categorie di lavoratori e di imprenditori. Se manca ogni tensione ideale nel reggimento della «cosa pubblica» e la convinta adesione al quotidiano svolgersi delle opere comuni come può esistere una società ordinata e in civile?». Dalla risposta dipende ancora il nostro futuro.   

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