LA GLOBALIZZAZIONE VA IN ARCHIVIO. E’ TEMPO DI RIPENSARE IL MONDO

LA GLOBALIZZAZIONE VA IN ARCHIVIO. E’ TEMPO DI RIPENSARE IL MONDO

di Mario Bozzi Sentieri

La  deglobalizzazione non è più un tabù. Tra tanti stop and go, annunci, auspici, paure, il dato di fatto della guerra dei dazi ci consegna il grande tema della fine di un ciclo, quello della globalizzazione, ed il suo reale superamento. Tutto da ripensare e da discutere e non solo sulla base dell’azione trumpiana. Le iniziative del Presidente statunitense non vanno infatti considerate come la causa delle tensioni dei mercati, della finanza  e dei rapporti commerciali tra gli Stati quanto l’effetto di una crisi più profonda e sottile, che si trascina da  anni e che ora è scoppiata come un bubbone giunto a maturazione.

Qualche segnale c’era peraltro già stato, negli anni scorsi,  a seguito  del peggioramento, durante l’emergenza Covid, delle catene di approvvigionamento globali, della competizione per le materie prime e del reshoring, cioè del ritorno delle produzioni industriali nei Paesi d’origine delle aziende.

Le sorti e progressive di una globalizzazione senza se e senza ma oggi stanno venendo meno. Così come l’illusione della “fine della Storia” , elaborata, nel 1989, da Francis Fukuyama sull’onda della caduta del Muro di Berlino, al punto da immaginare un mondo pienamente pacificato ed “integrato”, sotto la cappa della rivoluzione tecnologica, del trionfo del capitalismo e del nuovo ordine liberal-democratico.

Come  ebbe a sottolineare Aldo Di Lello (“Ascesa e declino della globalizzazione”, in AA.VV. “Sovranismo- Le radici e il progetto”, Giubilei Regnani 2019) “la globalizzazione non discende tanto da processi economici quanto da scelte politiche, nel senso che è il risultato di una straordinaria accumulazione di potere resa possibile dalla compiacenza dei governi e dei parlamenti d’Europa e d’America”. Con il risultato – alla prova dei fatti – di polarizzare ricchezze (all’interno degli Stati e tra di essi), di costruire veri e propri monopoli produttivi (concentrati nei cosiddetti Paesi emergenti, grazie anche ad una mano d’opera a basso costo),  di smantellare i ceti medi (favorendo l’espandersi di nuove forme di precarietà e proletarizzazione).  

Le accelerazioni di Trump in tema di dazi si collocano in questo contesto.

Al fondo la volontà non tanto (o non solo) di prefigurare una possibile via d’uscita (rispetto ad un deficit statunitense di circa 1200 miliardi di dollari e quindi alla necessità di “fare cassa”) quanto soprattutto di favorire le aziende che producono negli Stati Uniti, incentivando il rientro delle produzioni sul territorio nazionale.

Il dato certo – alla luce di queste sommarie indicazioni – è che siamo finiti dentro un futuro inatteso, che cambia le prospettive. La partita è ancora tutta da giocare. E’ questo il grande compito della cultura, delle istituzioni rappresentative, del mondo del lavoro. Qui si gioca la sfida del futuro. Esserne consapevoli è il primo passo, avendo però ben presente, di fronte alla fine del globalismo ideologico, la necessità un nuovo finalismo, politico, sociale e culturale, il quale non può non nascere da una serie di domande “di base”.

A quale modello socio-economico, venuti meno i vecchi riferimenti, richiamarsi? Con quale visione geopolitica? Dove guardare? Lavorando per quali  alleanze ?

Tornano alla mente le provocatorie, ma lucide analisi di Guillaume Faye, giovane esponente della Nouvelle Droite, il quale, nella prima metà degli Anni Ottanta del ‘900, in Contre l’économisme, già prefigurava un’economia non più in un quadro planetario e/o nazionale, ma sub-continentale, organizzata per aree omogenee dal punto di vista storico e culturale; con un’Europa tecnologicamente all’avanguardia, in un sistema di mercato intra-europeo sottoposto ai principi del surplus, della “creazione monetaria diretta”, dell’autarchia dei grandi spazi; con “uno Stato che non fosse né totalitario, né mercantile, né paternalistico, né socializzatore, che lasciasse ‘girare’ le forze creative del mercato pienamente, ma assegnando loro dei limiti ben fissati, in breve uno Stato che non facesse l’economia, ma la dirigesse e che la dirigesse politicamente e giuridicamente, ma non più economicamente e socialmente”. Al centro l’idea di un sistema in cui gli individui  si sentano mobilitati da obiettivi politici, nazionali, collettivi, “lirici”, ecc. Del marxismo – diceva Faye – io conservo l’idea della pianificazione, del liberalismo conservo l’idea del mercato (che non gli appartiene tuttavia in esclusiva). “Provocazioni” di un giovane e trasgressivo intellettuale fuori dagli schemi correnti, di ieri e di oggi? Può darsi, ma in un clima di stagnazione ideale e progettuale (con i governi costretti ad attivare interventi “tampone” più che a immaginare svolte epocali) l’auspicio è che arrivi finalmente  il tempo delle ridiscussioni “globali”, adeguate allo scarto epocale e segnate da  un “pragmatismo intelligente” in grado di misurarsi spregiudicatamente sui nuovi scenari internazionali.

Nel rimescolarsi delle carte della globalizzazione, sotto la spinta del protagonismo statunitense, prendere atto che l’Europa, oggi, rappresenta l’area più debole ed esposta ai venti della crisi significa andare oltre le polemiche contingenti e gli interventi di breve periodo. Per prendere coscienza dei nuovi assetti mondiali e della complessità delle sfide che incalzano: geopolitiche e produttive, energetiche e finanziarie, commerciali e militari. Qui si gioca il nostro destino. Esserne consapevoli è il primo passo per attivare le doverose contromisure, evitando di essere travolti da una crisi che si preannuncia drammatica. Stimolare dibattiti (e letture inusuali della realtà) uscendo finalmente fuori dagli schematismi del vecchio globalismo, è un primo essenziale passo per iniziare a costruire i nuovi assetti politici ed economico-sociali di un mondo tutto da ripensare, in grado di reggere le sfide del cambiamento.

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