Di Francesco Carlesi
2021: 100 dalla nascita del Partito Comunista d’Italia. Una ricorrenza che chiama in causa tanti momenti importanti, sanguinosi e controversi della storia nazionale, con tutte le complessità del caso. Si devono innanzitutto distinguere diverse “fasi” all’interno della lunga storia del comunisti in Italia, come ha rilevato Marco Bachetti, ognuna con le sue ombre ma anche con slanci ideali e aspetti positivi. Eppure, a conti fatti, non si può non rilevare come nella storia dei partiti e degli ambienti politici internazionali sia difficile trovare così tanto livore antipatriottico come nella cosiddetta sinistra italiana. Sin dalle loro origini, movimenti e partiti di sinistra hanno spesso cavalcato la polemica contro il popolo italiano e i suoi vizi “atavici”, in nome di «ideali universali» d’importazione, con risultati spesso negativi per il tessuto sociale della nazione e la stessa percezione di sé dei cittadini. Prima del 1921, uno dei casi più clamorosi risale alla Prima guerra mondiale, quando il Partito Socialista Italiano si schierò contro l’intervento del nostro Paese nel conflitto: molti di loro dissero «non aderire, non sabotare» alimentando al contempo il sogno, al motto «proletari di tutti il mondo unitevi», dell’unione internazionale di classe contro i nazionalismi. Nessun partito socialista europeo seguì l’esempio, fattore che contribuì a porre “fuori dalla storia” la propaganda anti-nazionale di uomini del PSI come Matteotti, mentre centinaia di migliaia di soldati combattevano per difendere i confini.
Come se non bastasse, al termine del conflitto i socialisti si distinsero per le offese ai reduci e una serie interminabile di agitazioni, occupazioni e violenze. Quel periodo sanguinoso, noto come «biennio rosso», originava dal tentativo di fare una rivoluzione sull’esempio della Russia del 1917. Proprio la fascinazione verso Mosca portò alla nascita del Partito Comunista d’Italia nel 1921, con il preciso scopo di aderire ai 21 punti dell’Internazionale comunista promossi da Lenin. Un legame con le indicazioni provenienti dall’estero che divenne nel tempo sempre più forte. Negli anni ‘20 iniziò il duro periodo della dittatura fascista, che costrinse molti comunisti all’esilio anche se Togliatti non mancò di firmare opportunisticamente una «Lettera ai fratelli in camicia nera» nel 1936, nell’anno del massimo consenso del regime.
La Seconda guerra mondiale e il definitivo ritorno dei “rossi” in Italia rinfocolarono, anche per via della drammatica condotta di guerra del fascismo, l’antico odio per la nazione. La furia ideologica si manifestò nella guerra civile e nella «strategia della tensione» messa in atto con gli attentati partigiani, mentre chi parlava di concordia nazionale come Giovanni Gentile veniva brutalmente assassinato. In nome dell’ideale comunista le stragi colpirono anche i “moderati” antifascisti, come a Porzus.
Il realismo del “migliore”
Nel dopoguerra, oltre alle rappresaglie partigiane, arrivò un convinto appoggio a Tito, testimoniato dalle incredibili parole di Togliatti: «È assurdo pensare che il nostro partito accetti di impegnarsi in una lotta contro le forze antifasciste e democratiche di Tito. In questo senso del resto la nostra organizzazione di Trieste ha avuto da me personalmente istruzioni precise: la sola direttiva da darsi è che le nostre unità di partigiani e italiani di Trieste e della Venezia Giulia collaborino in modo più stretto con le unità di Tito». Questo atteggiamento contribuì a stendere un velo sul dramma delle foibe e sul successivo esodo italiano dalla Venezia Giulia. Non solo, gli esuli vennero spesso accolti con sputi e insulti dai comunisti, che li bollavano perlopiù come fascisti in fuga dal «paradiso comunista». Solo dopo più di 50 anni e con la caduta del Muro di Berlino si è riuscito a parlare di questa profonda ferita nazionale, occultata in nome della solidarietà internazionale del PCI con la Jugoslavia e il comunismo internazionale (e ancora oggi minimizzata e negata ad esempio dall’ANPI).
Se Togliatti in alcuni frangenti seppe porre in scia la tematica operaia con quella nazionale, la sua bussola rimase sempre l’attenzione alle indicazioni di Mosca e agli equilibri internazionali, anche quando immaginava “vie italiane al socialismo”. Il suo realismo e la sua spietatezza erano secondi a nessuno: nel 1958, contattò i sovietici per chiedergli di posticipare l’esecuzione di Imre Nagy (alfiere della rivolta ungherese) dopo le elezioni italiane, così da non fargli perdere consensi di fronte all’opinione pubblica. Mosca acconsentì. Togliatti, ospite in Russia per lungo tempo nell’esilio degli anni del fascismo, d’altronde era colui il quale aveva sacrificato tanti italiani in nome dell’ideologia, rivendicato le stragi del dopoguerra e identificando sempre il suo faro nell’Unione Sovietica, che ricopriva di rubli il partito. Valerio Riva nel fondamentale volume Oro da Mosca ha calcolato che proprio il PCI fu il partito a cui arrivarono i maggiori finanziamenti in tutta la storia della guerra fredda. Sono gli anni in cui esporre un tricolore veniva considerato quasi un reato e un’apologia di fascismo. Ben inseriti nei gangli della cultura, dell’accademia e della magistratura, i militanti comunisti contribuirono in molti casi a far lievitare l’«autorazzismo» antinazionale, in nome della lotta di classe e della rivoluzione comunista. Risvolti sanguinosi si avranno poi nella drammatica stagione degli anni di piombo, in cui formazioni come le Br trovarono per lungo tempo coperture e appoggi mediatici e istituzionali, mentre «uccidere un fascista non era reato». Nelle manifestazioni giovanili, anche Stalin o Mao potevano diventare un simbolo, invece che Mazzini, Oriani o la vittoria nella prima guerra mondiale. In ambito sociale, l’insistenza sulla lotta di classe fece inoltre perdere la grande occasione di una politica di collaborazione e partecipazione dei lavoratori (art. 46 della Costituzione) che fu il segreto del rilancio tedesco ed era patrimonio spiccatamente italiano. Sul piano della ricerca storica, infine, proprio l’egemonia culturale della sinistra ha contribuito a imporre tabù e sbarrare la strada a temi e studiosi che non facessero parte del “clero progressista”. Gli strascichi di tutto questo sono arrivati fino ai giorni nostri, con conseguenze estremamente negative.
La svolta “americana” e finanziaria
Le prime serie crepe all’ortodossia ideologica del PCI, da parte soprattutto della corrente “migliorista”, non arrivarono nel segno di un sano orgoglio nazionale, ma strizzando l’occhio all’altra superpotenza: gli Stati Uniti d’America. Negli infuocati anni ‘70 cominciò la lenta strategia d’avvicinamento di alcuni esponenti comunisti verso i liberal americani e uomini d’alto livello della politica a stelle e strisce. Giovanni Amendola si incontrò più volte con Brzezinski, stratega del Pentagono, studioso dell’URSS e in quel periodo presidente della Commissione Trilaterale. Sergio Segre ebbe rapporti con ambienti americani attivi a Roma (come il diplomatico Robert Boies) così come il suo successore agli affari esteri del PCI Giorgio Napolitano. Il suo viaggio in USA ai tempi del sequestro Moro fu clamoroso, tanto come le sue parole distensive verso la NATO e la sua visita al CFR. Duane Clarridge, all’epoca “capostazione” CIA a Roma, ha parlato addirittura di un’infiltrazione organica dei servizi americani all’interno del partito comunista, in cui diversi esponenti «sbavavano per entrare al governo». L’occasione giusta arrivò dopo gli intensi anni ’80, segnati da un leader “decisionista” come Craxi, alfiere di uno di un vero e proprio «socialismo tricolore» secondo Giano Accame, e non a caso odiato dai comunisti. La “questione morale” agitata strumentalmente contro di lui da Berlinguer, d’altro canto, non fece altro che spianare la strada alla fine del “primato della politica”, come ha scritto ancora Bachetti.
Nei primi anni ’90, in prima fila nel PCI ci sono Achille Occhetto e Napolitano, il «comunista preferito di Kissinger», che hanno compiuto un viaggio negli States nel 1989 incontrando il gotha politico e economico americano. Per il più grande partito della sinistra italiana, risparmiato dalle inchieste, lo scompaginamento della prima Repubblica dettato dagli scandali di Tangentopoli è la ghiotta occasione per accedere finalmente alle stanze del potere. Eppure, i lati oscuri del sistema delle Coop, delle organizzazioni locali che partecipavano alla “spartizione della torta” partitocratica e infine dell’«oro da Mosca» era noti a tanti. Prima di morire, persino Falcone avrebbe dovuto occuparsi degli aiuti finanziari del Pcus al PCI e del ruolo giocato da «mafia internazionale e organizzazioni terroristiche clandestine nella circolazione e nella gestione di quell’enorme flusso di denaro». Il viaggio di Falcone a Mosca, libro di Francesco Bigazzi e Valentin Stepankov che si occupa di queste vicende, è sempre passato in secondo piano nei grandi circoli culturali, mente il protagonista giudiziario di Tangentopoli Antonio Di Pietro una volta lasciata la toga verrà eletto in parlamento con l’appoggio della sinistra. Il tema della magistratura “politicizzata”, rilanciato ancora oggi dal recente caso-Palamara, è una delle tante distorsioni della scena nazionale mai affrontate adeguatamente.
Dopo la parentesi Berlusconi, finalmente l’ex PCI arriva al potere. Ma quello di cui parliamo non è più una forza con venature sociali (che aveva combattuto anche battaglie importanti per i diritti dei lavoratori), ma un partito ben diverso, sempre più plasmato sul modello dei democratici americani, in nome delle affinità elettive tra progressisti e capitalisti suggellate dalla visione materialista dell’uomo e dei rapporti sociali. In continuità con il passato è rimasta l’impostazione antinazionale: i cavalli di battaglia sono i diritti umani, l’europeismo “senza se e senza ma” e le liberalizzazioni che demoliscono il patrimonio industriale italiano. La svendita della grande industria pubblica italiana, non a caso, vede il “centro-sinistra” di Prodi in prima fila. Una politica che ha “gettato il bambino con l’acqua sporca” e che perdura fino ai giorni nostri: politiche di genere e diritti civili sono le pallide battaglie ideologiche per nascondere il totale abbandono a cui sono lasciati i lavoratori italiani e l’interesse nazionale. Una classe dirigente spesso cresciuta nelle sezioni del PCI è oggi la prima sostenitrice della globalizzazione e del «vincolo esterno» europeo, i quali stanno accompagnando l’Italia (accanto a pesanti difetti strutturali ovviamente) verso la scomparsa industriale, demografica e politica. Napolitano, ancora lui, è rimasto sempre protagonista: dall’appoggio all’invasione ungherese (1956) è passato all’avvallo della guerra in Libia (2011), clamorosamente lesiva dei nostri stessi interessi, orchestrando infine un “colpo di Stato dolce” (per dirla alla Tremonti) che ha scalzato Silvio Berlusconi inviso alle cancellerie europee in favore di un “tecnico” come Monti. Colpi di Stato post-moderni che non perdono mai la loro attualità, come dimostra ai nostri giorni la figura di Mario Draghi. Guerre “umanitarie”, investitori esteri, modello sociale anglosassone, complessi d’inferiorità verso lo straniero, diktat europei, immigrazione incontrollata: tutto, purché non questa «rozza» e «razzista» Italia.
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