DA MACHIAVELLI A MORGHENTAU PASSANDO PER SCHMITT. LE ORIGINI DEL PENSIERO REALISTA

DA MACHIAVELLI A MORGHENTAU PASSANDO PER SCHMITT. LE ORIGINI DEL PENSIERO REALISTA

Una teoria che ha segnato la storia mondiale

Il realismo politico rappresenta il più antico ed importante approccio allo studio delle relazioni internazionali. Pur non essendo mai riuscito a trasformarsi in una “scuola” vera e propria – se non poche volte e principalmente negli Stati Uniti – il realismo ha comunque influenzato teoria e prassi delle relazioni internazionali e, più in generale, della politica nel corso dei secoli più di qualunque altra dottrina.

Prendendo a modello i sei princìpi enunciati da Hans Morghenthau in “Politica tra le nazioni. La lotta per il potere e la pace” (1948) si può “ritagliare” una sorta di cappello ideologico del realismo politico: la politica è governata da leggi oggettive, che derivano dall’immutabile natura umana; il concetto di interesse, definito in termini di potere, permette una comprensione razionale della politica (sulla quale agiscono comunque anche elementi irrazionali); l’interesse definito in termini di potere varia nel tempo, in quanto dipende dalle circostanze concrete di tempo e di luogo; i principi morali non possono essere applicati astrattamente alle relazioni fra gli Stati, ma devono essere filtrati dalle circostanze concrete di tempo e di luogo; le aspirazioni morali di uno Stato (ad esempio combattere una guerra giusta, ambire alla pace fra le nazioni) non possono essere identificate con il bene universale, ma solo con il perseguimento dell’interesse di quello stesso Stato, definito in termini di potere; pur reputando l’uomo un essere pluralista (che ad esempio agisce, anche contemporaneamente, nella sfera economica, sociale, psicologica, ecc.), il realismo politico considera la sfera politica come la principale tra le molteplici sfere di interesse umano, e la distingue in special modo da quella morale per riuscire a studiare in termini oggettivi, scientifici la politica; un governo non può concedersi di disapprovare o evitare la violazione di qualche principio morale astratto, se una simile concessione gli impedisce di compiere una scelta politica di successo, ispirata dal supremo principio morale della sopravvivenza nazionale. La morale politica, insomma, giudica come giusto o sbagliato un corso d’azione in base alle specifiche conseguenze politiche di quest’ultimo (e non ad astratte considerazioni etiche); per questo, la prudenza è la massima virtù politica.

Dalla “Storia della Guerra del Peloponneso” del politico, condottiero e storico ateniese Tucidide all’opera “Il Principe” del segretario fiorentino Niccolò Machiavelli, per arrivare poi al “Leviatano” di Thomas Hobbes, il realismo ha plasmato l’azione politica nel corso dei secoli.  Nella modernità, il conte Camillo Benso di Cavour, vero artefice dell’unità d’Italia, ed Otto von Bismarck, la geniale mente diplomatica dietro la potenza prussiana prima e tedesco-imperiale poi, sono stati entrambi realisti, così come tra gli aderenti a questa “scuola” vanno inseriti il sociologo Max Weber ed il giurista e politologo Carl Schmitt. Dopo la Seconda Guerra Mondiale il realismo politico europeo è stato trapiantato negli Stati Uniti da intellettuali quali Hans Morghenthau e Reinhold Niebuhr ereditando, però, dalla tradizione del Vecchio Continente i concetti del “politico” schmittiano e della “etica della responsabilità” weberiana in netto contrasto con la tradizione liberal-idealista e wilsoniana non solo dei teorici ma anche dei decisori politici statunitensi.

Prima di essere una corrente di pensiero o una scuola teorica, il realismo s’è connotato come una “prasseologia” nata in seno alla tradizione diplomatica europea nei secoli XVIII ed XIX, con i caratteristici tratti teorici del realismo seicentesco. È nell’800 però che il realismo politico come teoria si sviluppa seguendo il doppio filone della storiografia politica e della scuola storica dell’economia, entrambe le correnti nate in Germania sull’onda dell’anti-illuminismo seguito all’invasione napoleonica.

La storiografia politica tedesca e la scuola storica dell’economia alle origini della teoria realista

La storiografia politica tedesca si sviluppa grazie all’azione ed alle opere di Leopold von Ranke, il fondatore della Weltgeschichte (storia mondiale), che in libri come “Storie dei popoli latini e germanici dal 1494 al 1535” (1824) e “Gli Ottomani e la monarchia spagnola” (1827) diede per la prima volta un ruolo fondamentale alle fonti d’archivio e pose al centro del divenire storico le azioni e le idee dell’uomo criticando la “filosofia della storia” di Hegel. Per von Ranke infatti le idee non sono indagabili a priori e slegandole dai fatti.

La storiografia di Ranke, soprattutto sulla base delle relazioni diplomatiche, tracciò la genesi del sistema di equilibrio delle grandi potenze nella storia d’Europa, concentrandosi in modo particolare sulla formazione delle grandi monarchie nazionali e sulle loro interazioni più o meno conflittuali fino al XVII secolo. Dal punto di vista politico-ideologico le riflessioni di Ranke, specie nell’opera “Sämmtliche Werke: Zur Geschichte Deutschlands und Frankreichs im neunzehnten Jahrhundert” (1887), diedero vita al principio della Realpolitik (che tanta fortuna avrebbe avuto come “ideologia anti-ideologica” di Bismarck), inizialmente inteso quale antitesi al bagaglio dottrinario illuminista e cosmopolita della Francia rivoluzionaria prima e delle idee liberal-idealiste sorte sull’onda della sconfitta di Napoleone a Waterloo.

Per Leopold von Ranke la Realpolitik è un “invito a concentrare nuovamente l’attenzione sui valori e le identità nazionali” e da consigliere del re di Prussia darà proprio questa interpretazione al termine, mentre sarà il giornalista, deputato liberal-nazionale e politologo bavarese Ludwig von Rochau, nel suo “Der Grundsätze Realpolitik, angewendet auf die Staatlichen Zustände Deutschlands” (“I principi della realpolitik applicati allo Stato tedesco”, 1853), a collegare fattivamente la “politica pratica” al campo dei rapporti di forza per la conquista del potere, pur restando un acerrimo nemico del realista Bismarck.

Al contrario, sempre in ambiente storico, a collegare la politica bismarckiana al realismo fu Heinrich Gothard von Treitschke (che dedicò anche un suo libro al pensiero ed all’azione del conte di Cavour), tra i fondatori del Partito Nazionale Liberale prussiano e seguace del “Cancelliere di ferro”. Sostenitore della potenza militare prussiano-tedesca, von Treitschke piegò l’insegnamento della storia agli scopi politici ma, contemporaneamente, da storiografo ufficiale del Regno di Prussia, teorizzò il definitivo inserimento della “Ragion di Stato” tra i principali concetti della politica internazionale, influenzando non solo l’ambiente politico-culturale tedesco ma anche quello anglosassone.

La scuola storica tedesca dell’economia nacque invece nel 1843, sull’onda delle teorie di Friedrich List, sistemate ed aggiornate da Wilhelm Roscher in “Grundriss zu Vorlesungen über die Staatswirtschaft nach geschichtlicher Methode” . Fu tuttavia la seconda generazione di economisti appartenenti alla scuola, il gruppo dei “Cathedersozialisten” (socialisti della cattedra) formato, tra gli altri, da Gustav von Schmoller, Adolf Wagner e Lujo Brentano ad influenzare in modo specifico il realismo politico: la scuola storica dell’economia criticò in maniera radicale l’approccio logico-deduttivo degli economisti marginalisti e quindi l’astrattezza delle leggi economiche; sottolineando di converso che fossero il contesto politico-sociale ed il Volkgeist ad influenzare la formazione di un sistema economico. Non è, sostengono gli economisti “storicisti”, analizzando i comportamenti ed i bisogni del singolo che possono ricavarsi leggi universali dell’economia, al contrario, esse sono pure astrattezze che non tengono conto del fatto che sono le comunità organizzate a determinare bisogni e politiche economiche. La conclusione finale della scuola storica dell’economia è che sia la politica a determinare i fattori economici e non viceversa.

Una teoria questa che, se da una parte allontanò i “socialisti della cattedra” dal riformismo marxista avvicinandoli o ai gruppi liberal-conservatori o, come nel caso di Brentano, addirittura al monarchismo sociale di Friedrich Naumann, dall’altra diede ai realisti la base da cui partire per teorizzare il primato della politica e dunque dello Stato rispetto all’individuo ed all’economia.

Il legame profondo tra la cultura tedesca otto-novecentesca ed il realismo politico statunitense è frutto dell’origine europea di intellettuali come Morghenthau, Niebuhr, Waltz e Liska, ma anche del processo di critica al liberalismo wilsoniano innescatosi negli USA tra gli anni ’20 e ’30 del Novecento a seguito del crollo dell’equilibrio sancito a Versailles e della nascita dei regimi totalitari ed autoritari in Europa e che spinse l’élite politico-culturale statunitense a riconsiderare in chiave positiva il realismo ottocentesco di Cavour e Bismarck.        

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