GIOVANNI GENTILE E IL RINASCIMENTO: IL VALORE UNIVERSALE DELL’IDENTITA’ ITALIANA (parte uno)

GIOVANNI GENTILE E IL RINASCIMENTO: IL VALORE UNIVERSALE DELL’IDENTITA’ ITALIANA (parte uno)

Di Alfonso Piscitelli

I. le radici medievali del Nuovo Mondo Rinascimentale

Giovanni Gentile è stato uno degli autori che più ha riflettuto sul valore del Rinascimento come elemento qualificante della identità italiana. Peraltro, nel Rinascimento identità italiana e universalità si congiungono: l’umanesimo rinascimentale ha valore per l’Italia e per il mondo.

La difficoltà di un “nazionalismo” o di un identitarismo italiano è appunto nel fatto che la cultura italiana è più vocata ad esprimere valori universali che non ad affermare una fisionomia specifica, che nel concreto favorisca elaborazione di una visione strategica e la difesa di un interesse particolare. Forse la stessa esterofilia dilagante, l’innamorarsi di nazionalità straniere (dall’americanismo di Alberto Sordi/Nando Moriconi, alla passione sovietica, poi cinese, poi vietnamita delle sinistre, fino all’amore ideologico per il migrante che fa obliare i milioni di italiani poveri) è l’effetto opaco di quella vocazione alla universalità che nei millenni si è manifestata nella civiltà giuridica di Roma, nel Cattolicesimo Romano e appunto nel Rinascimento.

La lettura di Gentile del Rinascimento è forse quella più acuta: una via mediana tra le strumentalizzazioni in chiave illuminista-positivista – con palesi anacronismi storici – e una malcelata demonizzazione da parte di quella cultura più clericale che alla fine si è ridotta a tollerare un Galileo, sempre però preferendogli nel cuore l’inquirente cardinal Bellarmino.

Paradossalmente, proprio la parte politica che più avrebbe potuto trarre frutto dalla lezione gentiliana a un certo punto ha preferito seguire gli indirizzi di un “tradizionalismo” decisamente lunare che condannava i Comuni, il Rinascimento e il Risorgimento (e nella sua fazione estrema neopagana lo stesso Cristianesimo) generando un effetto di estraniamento dall’ethos nazionale che in breve tempo è stato pagato con il prevedibile contrappasso della irrilevanza politica.

Gentile e il Rinascimento dunque. La lezione gentiliana sul Rinascimento valorizza anche personalità come Averroè il filosofo aristotelico di area islamica, a dimostrazione di una ampiezza di vedute che supera – in anni in cui ancora vigeva un marcato eurocentrismo culturale – i limiti della stessa civiltà europea. Nota Gentile che l’averroismo fu la filosofia dei “ribelli medievali”, di coloro che aprirono una via nuova, oltre gli Ipse Dixit.

In questa apertura a dimensioni nuove un ruolo di primo piano spetta anche a Federico II di Svevia. La corte palermitana di Federico non è fondamentale solo come culla della letteratura italiana, ma anche per lo sviluppo della filosofia e la prima definizione di una “biblioteca italiana”.

Comincia a maturare in questi ambienti il tema della separazione tra Fede e Ragione (che già aveva avuto ampio risalto nella filosofia di Averroè), il che declinato in termini più concreti non significa tanto lo sviluppo di un pensiero irreligioso, quanto piuttosto di una cultura laica autonoma dai detentori ecclesiastici del monopolio sulla cultura.

Gentile nota come lo stesso Tommaso d’Aquino prenda parte positivamente a questo processo storico, da un lato mantenendo ben salda la fede nella Verità Rivelata, ma dall’altro rivendicando il valore della Ragione nei confini della investigazione del mondo sensibile.

Si delinea in questo modo lo sviluppo della civiltà italiana attraverso tre grandi nomi: Federico II – Tommaso d’Aquino – Dante Alighieri. Nella visione dell’Alighieri la lotta all’invadenza del potere pontificio nella sfera politica con coerenza si unisce la rivendicazione dell’autonomia delle scienze umane e politiche. È questo il senso profondo del De Monarchia. “Nel suo pensiero – scrive Gentile – la latinità diventa italianità e, conscia del suo assoluto valore storico, si rivendica e si afferma di contro alla Chiesa”. Dante forgia i caratteri nazionali dello spirito italiano, preservandone il carattere di universalità (legata alle premesse del diritto romano e della religione cristiana).

In questa carrellata di Auctores che “profetizzano” il futuro avvento del Rinascimento, Gentile ribadisce l’importanza di Marsilio da Padova, l’autore del Defensor Pacis: testo rivoluzionario che tratteggia lo Stato come una creazione della volontà umana che si manifesta nella storia. Il pensiero politico di Marsilio è stato interpretato come una classica espressione dell’“averroismo padovano”, con l’applicazione del principio della “doppia verità” all’ambito della politica e con l’obiettivo di invalidare ogni idea teocratica. Tuttavia – considerazione di chi scrive – perché andare a cercare così lontano (nell’influsso dell’islamico-andaluso Averroè), quello che è invece un evidente effetto della riflessione sul testo evangelico? Tanto il Defensor Pacis di Marsilio, quanto il “De Monarchia” di Dante sono il corollario del Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, la frase con cui nei Vangeli si marca la distanza di una religione universale dai nazionalismi religiosi da un lato e dalle forme di sacralizzazione del potere politico dall’altro.

Valorizzando il pensiero e la funzione storica di personalità come quelle di Averroè, Federico II, Tommaso d’Aquino, Dante e Marsilio Giovanni Gentile compie una operazione, poi confermata da studiosi più specialistici, di scavare nelle radici medievali del Nuovo Mondo Rinascimentale, in tal modo egli dissolve quella concezione che suddivide la storia d’Italia in compartimenti stagni e dimostra il coerente e organico sviluppo della grande pianta dell’identità italiana.

II. Petrarca, Valla e il Rinascimento

Francesco Petrarca per Gentile rappresenta il classico esponente di una “filosofia dei non filosofi”. Il che non significa dilettantismo, ma piuttosto la capacità di sollecitare il pensiero con esigenze che venivano dagli impulsi del tempo così come essi erano percepiti da un uomo di profonda cultura, come appunto nel caso della seconda “corona fiorentina”.

Il “non-filosofo” Petrarca porta avanti le istanze della polemica contro la precedente cultura scholastica con i toni di un già diffuso anti-accademismo. Non è una polemica sterile dal momento che in positivo egli promuove la ricerca del soliloquio interiore, della edificazione interiore, apre la strada alla piena espressione della soggettività. Si conferma l’intuizione avuta da una personalità ecclettica come l’austriaco Rudolf Steiner il quale riferiva alla stagione umanistica della prima metà del Quattrocento l’albeggiare di quel tipo umano caratterizzato da quell’ “anima cosciente” destinata poi a diventare la cifra psicologica della civiltà contemporanea. E Gentile stesso sostiene che guardando “all’indietro, nell’Umanesimo (troviamo) l’archetipo del mondo moderno”.

In Petrarca e nella sua filologia Gentile ravvisa una squisita forma di disciplina del pensiero. La cura filologica nell’affrontare i testi scritti è di per sé una preoccupazione per il retto pensare. E tale rettitudine del pensiero è fondamento per la rivendicazione di una sostanziale libertà dell’individuo: libero in quanto determinato esclusivamente dalla limpida forma del proprio pensare.

A partire da Petrarca, l’umanesimo italiano, continua Gentile, “a poco per volta spianta dagli animi quel concetto del trascendente, che era stato il fulcro d’ogni filosofia medievale” facendo appunto emergere il primato del soggetto. Questo, come chiarirà trattando di altri autori, non significa affatto una caduta nel materialismo, come invece alcuni discepoli di Gentile, divenuti dopo la seconda guerra mondiale comunisti o ultra-laicisti, si affretteranno a concludere assecondando l’ideologia dominante.

Esigenze molto simili a quelle di Petrarca si riscontrano in Lorenzo Valla. In Valla, nota Gentile, la semplice conoscenza si fa “indagatrice e giudicatrice”. L’umanesimo si emancipa così dal sapere tradizionale, affermando l’individualità come fondamento del pensiero. In tal senso – considerazione nostra – la cultura italiana può vantare una primazia rispetto a quella rivoluzione del Cogito che didascalicamente si attribuisce a Cartesio.

Mentre compie la sua battaglia iconoclasta – nei confronti di aristotelismo e pretese guelfe – con gli strumenti della filologia, il Valla vuole essere restauratore di un epicureismo che in verità si rivela essere molto sui generis, meno “frugale” di quello di Epicuro e sicuramente meno “tragico” di quello di Lucrezio, ma decisamente ottimista e vitalista.

Per Valla, epicureo cristiano, l’universo è comunque effetto di un disegno creativo provvidenziale. Nel “De Voluptate” la Natura si manifesta nello stesso tempo opera razionale e benigna per gli uomini appunto perché frutto di amorevole creazione di un Dio buono. In tal modo l’epicureismo si cristianizza e nello stesso tempo la devozione per il Trascendente viene ricondotta alla dimensione della ammirazione per la bellezza della natura. Dice icasticamente Gentile che Valla “naturalizza lo stesso trascendente”.

Nella visione di Gentile il pensiero rinascimentale italiano oscilla, con ampio respiro, tra i due poli di natura e spirito. I più grandi del Rinascimento tendono a cogliere l’unità del mondo, cogliendo un punto di vista più alto rispetto alle unilateralità delle filosofie della trascendenza e dell’incipiente materialismo.

L’uomo del Rinascimento scava nelle profondità della Natura, ma senza affogare nel materialismo: nella natura egli ritrova la contro immagine dell’Uomo come essere distinto dalla qualità del pensiero e dalla virtù creatrice che si realizza nella natura stessa. Per cui il problema che si pone è come trovare il giusto rapporto tra il polo dello spirito umano e il polo del mondo esterno e in che modo liberamente può esprimersi l’attività creatrice dell’uomo. Come si vede, il Rinascimento si pone come terreno di sviluppo della filosofia del Romanticismo: non a caso gli idealisti romantici partiranno dalle riflessioni di Bruno sulla Natura.

La lettura gentiliana, sepolta sotto le macerie della guerra dagli stessi che partirono come suoi discepoli e collaboratori accademici, rappresenta un salutare antidoto a tutte quelle interpretazioni tendenzialmente materialiste che nel naturalismo rinascimentale scorgono il primo movimento verso quella visione per cui il mondo è un aggregato casuale di elementi e l’uomo un semplice bruto che ha trovato un adattamento nel mondo.

I Rinascimentali viceversa ribadiscono il valore speciale dell’uomo in quanto essere pensante. Aggiungiamo noi: tale valore è tanto stringente che anche coloro per cui l’uomo è un animale tra gli altri in realtà esprimono pur sempre un pensiero umano e coloro che parlano di “animal rights” in realtà, con goffo e inconsapevole estremismo antropocentrico, proiettano gli slogan della sinistra radicale nel mondo delle scimmie e dei cavalli che davvero di quegli slogan farebbero volentieri a meno…

Una volta assodato il carattere speciale dell’uomo in quanto dotato della potenzialità del Pensiero Vivente (efficace espressione di Massimo Scaligero) si apre la questione di come l’uomo possa esprimere questa sua potenza creatrice e come si armonizzino proficuamente l’ordine del pensiero umano e l’ordine della natura.

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