IL BIENNO ROSSO: ALLE ORIGINI DELLA VIOLENZA COME METODO DI LOTTA POLITICA

IL BIENNO ROSSO: ALLE ORIGINI DELLA VIOLENZA COME METODO DI LOTTA POLITICA

Di Cristian Leone

«Hanno ammazzato Giovanni Berta, figlio di pescecani, viva quel comunista che gli pestò le mani!», così recitava uno stornello comunista esaltante l’assassinio di Giovanni Berta. L’omicidio di Giovanni Berta non è, negli anni compresi tra il ’19 e il ’24, un caso isolato. Uccisioni, pestaggi, aggressioni, agguati, attentati sono pratiche di lotta politica che vengono condotte ininterrottamente e in maniera sistematica dai «rossi» nel periodo che va dal 1919 al 1924. Una vulgata storica ancora oggi imperante vorrebbe presentare la violenza come una prerogativa esclusivamente fascista. Fascismo e violenza sono oggi usati in maniera interscambiabile. Sono sinonimi. Anche chi accusa la sinistra di commettere delle violenze utilizza termini del tipo «fascisti rossi» o «squadristi di sinistra» che, oltre ad essere storicamente insostenibili e inaccettabili, rappresentano quanto l’egemonia culturale della sinistra si sia imposta a un livello totalizzante. Ma per quale motivo, per descrivere la violenza, si usano termini come «fascisti rossi», «squadristi di sinistra» ecc. e non «rossi», «antifa», «collettivi» ecc.? Perché esiste una appropriazione culturale storicamente sbagliata che identifica la violenza solo ed esclusivamente col fascismo, eppure, basta andare oltre una certa faziosità per comprendere come, dalle violenze del biennio rosso alle bombe al teatro Diana nel ’21, passando per l’omicidio di Casalini nel ’24, la violenza è connaturata a una determinata mentalità sovversiva.

Il Congresso socialista del ’19 e la legittimazione della violenza come strumento di lotta politica

È il congresso di Bologna del 1919 a segnare un nuovo modo di fare politica, infatti, in questa occasione, con il trionfo dei massimalisti, i socialisti, esaltati dalla vittoria bolscevica, proclamano la rivoluzione proletaria come loro obiettivo. Il partito socialista decide così di abbandonare la pratica riformista e di basare la nuova strategia sull’abbattimento violento dello Stato liberale. Scrive a riguardo Vivarelli: «L’assunzione della violenza a strumento ordinario di lotta politica, alla quale occorreva addestrare i propri seguaci, venne a Bologna ufficialmente sancita nei documenti del partito, a conferma che, almeno a parole, i socialisti consideravano ormai fosse già suonata l’ora della guerra civile e che in essa perciò, piuttosto che nelle lotte sindacali o parlamentari, che la legalità liberamente consentita, occorresse prendere il proprio posto di combattimento». È da questo congresso che emerge, quindi, un nuovo metodo, un diverso modo di concepire la lotta politica. L’intransigenza deve prevalere negando ogni forma di collaborazione, escludendo ogni possibilità di sia pure occasionale rapporto, con tutte le forze politiche alle quali viene attribuita la qualifica di «borghese», cioè in pratica con tutti coloro che non sono socialisti. Il partito socialista ora riconosce il ruolo della violenza nella lotta politica e proprio la violenza viene assunta quale strumento idoneo e necessario per conseguire gli obiettivi socialisti.

Le violenze dei sovversivi nel biennio rosso

Il biennio rosso, nella vulgata storica oggi imperante, viene considerato come un periodo connotato da aspre lotte rivendicative in cui i lavoratori, agricoli e industriali, tentano di ottenere migliori condizioni sociali. Occupazioni di fabbriche e di terreni, dunque, per imporre ai «padroni» trattamenti più umani e retribuzioni salariali adeguate ai lavori svolti, nuovi contratti e diverse tutele giuridiche e sociali. Tentativo di riformare lo Stato ma non di abbatterlo. In realtà, leggendo le pagine di storici del calibro di Lyttelton, De Felice, Vivarelli, emerge un quadro del biennio rosso del tutto differente dalla vulgata comune. Un biennio fatto sia di scioperi politici ma anche di violenze gratuite, di guardie rosse, di attentati contro uomini in divisa, «crumiri» o semplici cittadini colpevoli di non piegarsi ai dettami dei «sovversivi». Nel biennio rosso, in alcune zone d’Italia, specie in Emilia Romagna, la potenza delle leghe rosse è tanta da arrivare a istituire vere e proprie zone di «Stato nello Stato», con leggi e regolamenti propri, nei confronti dei quali il potere centrale è impotente. In alcuni paesi viene imposto ai dissidenti l’esilio, ovvero una sorta di scomunica per cui il cittadino colpito da questo atto non può avere più rapporti sociali all’interno della comunità e alla fine è costretto ad andarsene. Ai contadini che vogliono lavorare vengono bollate le mani con il marchio della lega, così, il giorno successivo, a seconda se il marchio è intatto o meno si capisce se il contadino ha lavorato oppure no e, nel caso in cui si scopre che ha lavorato viene duramente bastonato. Il 4 novembre del 1919 non viene festeggiata, con la paura di fare cosa sgradita ai «sovversivi», la vittoria della guerra. I treni, quando si scopre che a bordo ci sono uomini in divisa o preti, vengono fermati con l’ordine di non ripartire fino a quando i malaugurati soggetti non scendono. Nelle strade, militari di ritorno dal fronte, anche se mutilati, vengono percossi e in alcuni casi uccisi perché colpevoli di aver combattuto. Nel primo dopoguerra assistiamo quindi a una situazione del tutto precaria che vede uno Stato incapace di reagire all’atmosfera di terrore imposta dai «sovversivi». Vivarelli, con queste parole, descrive il clima creatosi in questo periodo: «Ciò che specialmente colpisce il lettore odierno che ripercorra le cronache di quei mesi è il vero e proprio stillicidio di violenze singole, di gratuiti oltraggi e di prepotenze, che ferivano per lo più cittadini indifesi, una somma di azioni delittuose considerate minori perché per lo più isolate, ma non meno gravi se se ne considera la frequenza e la diffusione, e tali nel loro insieme da gettare l’intero paese in uno stato di viva e profonda inquietudine».

Contro ogni strumentalizzazione partitica della storia

Sono quindi stati i «rossi» ad usare per primi la violenza come strumento di lotta politica, infatti, ancor prima della nascita delle squadre d’azione, sono le associazioni borghesi formate da liberali, conservatori e nazionalisti a tentare una resistenza armata contro i soprusi di socialisti e anarchici. Inoltre, come fa notare Vivarelli, il fascismo si sviluppa in quei luoghi dove è maggiore la presenza dei socialisti, quindi, maggiori sono le violenze dei «sovversivi», maggiore è la crescita del movimento di Benito Mussolini.

Per tracciare una genesi della violenza come strumento di lotta politica in Italia bisogna dunque partire da un’analisi del primo dopoguerra evitando così di ricadere in facili, quanto confutabili stereotipi che identificano la violenza con una sola fazione o, peggio, con un’unica mentalità. Uno studio del biennio rosso è quindi indispensabile per chiunque voglia affrontare un discorso politico e storico con onestà intellettuale, andando oltre una retorica faziosa atta a strumentalizzare gli eventi per conseguire evidenti fini politici.

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