IL LAVORO: ETICA BORGHESE E MISTICA FASCISTA

IL LAVORO: ETICA BORGHESE E MISTICA FASCISTA

Di Cristian Leone

Questo articolo non vuole essere un ennesimo approfondimento della legislazione sociale fascista, tema già ampiamente trattato, ma cerca di prendere in considerazione esclusivamente l’aspetto teorico relativo all’importanza del lavoro e alla sua funzione all’interno della società. Il lavoro, storicamente, ha avuto funzioni, scopi e caratteristiche diverse. La concezione lavorativa tipica dell’aristocrazia differisce da quella borghese che, a sua volta, diverge da quella fascista. Questo pezzo vuole tentare una ricostruzione del concetto di “lavoro” concentrandosi particolarmente su una distinzione, spesso trascurata, tra etica borghese e mistica fascista.

L’ETICA DEL LAVORO NELLA MENTALITÁ BORGHESE

È con la rivoluzione francese, fase fondante della moderna società borghese, che il lavoro perde quella marginalità al quale lo relegava l’aristocrazia e assume un valore fondante. Il passaggio da un tipo di società aristocratica ad una borghese, come mette bene in evidenza Marx, segna la transizione da un’epoca dominata dal concetto di rendita a un’altra in cui è il profitto a permeare l’azione umana. Rendita e profitto rappresentano due mondi opposti: aristocrazia e borghesia. La nota formula marxiana m – d – m e d – m – d descrive in maniera accurata il trapasso da un’epoca ad un’altra. Il lavoro non viene più considerato come un mero strumento di sussistenza ma diviene l’elemento essenziale della nuova società. Mentre l’aristocrazia avocava a sé la responsabilità del comando, relegando ad altri il lavoro, la nuova èlites borghese respinge il concetto aristocratico di rendita e stabilisce il lavoro come unico presupposto per occupare il vertice della gerarchia sociale.  Sacrificio, sudore, rispettabilità, risparmio, sono questi gli elementi che costituiscono l’etica del lavoro per il borghese. Secondo questa nuova etica la “retta via” e lo spirito di sacrifico rappresentano non solo gli unici strumenti di miglioramento e di riscatto sociale, ma i presupposti fondanti che consentono all’uomo di essere uomo. Il lavoro assume non solo una funzione sociale ma addirittura antropologica. La nuova classe dirigente borghese non si limita ad accumulare denaro come faceva l’antica aristocrazia, ma lo investe per ottenere un quantitativo superiore a quello di partenza. Non più rendita ma profitto. È da qui che nasce il disprezzo borghese verso chiunque non sia produttivo, verso chiunque non miri ad aumentare continuamente il proprio patrimonio. Nel nuovo linguaggio borghese vengono definiti come “parassiti” tanto i nobili quanto i proletari. I primi ostentano con sfarzo estremo una ricchezza prodotta da altri mentre i secondi (di solito etichettati come “alcolizzati” o “debosciati”) sono privi di quelle qualità “sane” capaci di far fruttare il denaro in loro possesso. È il lavoro, e non più l’appartenenza a un determinato ceto, a rappresentare il presupposto determinante per l’inserimento dell’uomo nella società. Mentre l’aristocrazia comandava in virtù di privilegi pre-determinati, la borghesia rivendica la funzione di guida nella società non in base a un “diritto di nascita” ma per merito. Tanto le classi subalterne quanto quelle aristocratiche vengono guardate con disprezzo proprio per la loro incapacità al “risparmio” e al “duro lavoro”. Vizi, ozi, sperperi di denaro, pigrizia sono tutti disvalori considerati con disprezzo dalla classe borghese che, viceversa, come vedremo, fa l’apologia di quegli imprenditori che «si recano al cantiere prima dei loro operai». Abnegazione, disciplina, risparmio sono questi i valori fondanti la nuova etica del lavoro borghese. Questa concezione del lavoro potrebbe sembrare a prima vista molto simile a quella fascista, tanto che alcuni storici hanno totalmente evitato di affrontare i dovuti distinguo portando, così, di conseguenza ad accomunare i due pensieri. In realtà la mistica del lavoro propugnata dal movimento di Benito Mussolini è totalmente differente all’etica borghese perché, per quanto la centralità del lavoro non viene messa in discussione, quello che cambia è il motivo per cui si lavora e lo spirito con il quale si lavora. Perché si lavora? Il lavoro, premessa indispensabile di inserimento sociale, serve ad accrescere il proprio benessere o ad aumentare quello della collettività? Ha uno scopo individuale o comunitario, materiale o spirituale? Il lavoro viene considerato come un fattore della produzione o in maniera totalizzante? È proprio su queste domande che etica borghese e mistica fascista divergono totalmente.

MISTICA DEL LAVORO

L’etica del lavoro tipica della borghesia non tiene in considerazione né la dimensione spirituale del lavoro, né quella comunitaria, per questo motivo non coglie il passaggio evolutivo dal lavoro alla forza-lavoro. L’unione tra la rivoluzione francese e la seconda rivoluzione industriale determina la nascita del sistema capitalistico con la conseguente trasformazione del lavoratore in uomo-macchina. La borghesia, esaltando il lavoro non considera minimamente le implicazioni etiche in cui si trova ad agire la macchina-uomo all’interno del processo produttivo, ma solo l’attività in quanto tale e il ricavato in termini economici che deriva da tale impiego. Il lavoro meccanico, così come viene attuato nella società capitalistica, non ha in sé nessun valore. Non è affermazione dello spirito sulla materia e nemmeno mezzo concepito in vista di un fine superiore, ma è pura fatica, pura materialità ingabbiata in un sistema razionalizzato in cui ogni azione del lavoratore è controllata e scandita dal processo produttivo, condotta con la sola finalità di alimentare il guadagno economico di chi governa il sistema della produzione. L’etica borghese del lavoro è priva di quella dimensione comunitaria e spirituale che, invece, contraddistingue la mistica del lavoro, come evidenzia bene Omero Valle in Processo alla borghesia:

«L’attività in quanto tale, infatti, non può costituire un valore sociale, è pura tecnica e quindi una astrazione, posta al di fuori della completezza pregnante della vita. Un giudizio morale e perciò politico lo si potrà solo emettere su di un fatto considerato in relazione con altri fatti e particolarmente in connessione ai fini generali del complesso umano. Ora il lavoro razionalizzato di Ford, la “divorante” misurazione dei tempi di produzione, la implacabile organizzazione in cui rimane chiuso l’uomo-macchina che viene ad essere pesato e controllato in ogni attimo della sua esistenza e ciò non già ai fini ideali di una superiore conquista, che in tal caso l’abbruttimento spirituale non avrebbe luogo di verificarsi, ma sacrificando unicamente all’inesorabile feticcio della cosiddetta efficienza, tutto ciò, dico, non può costituire titolo di merito alcuno nei riguardi di chi tali sistemi va attuando anche se, preso lui stesso nell’ingranaggio, ne osserva la norma».

Il fascismo vuole creare una vera e propria mistica del lavoro, in cui quest’ultimo non è più affrontato tramite considerazioni esclusivamente economiche, ma viene correlato a tutte le altre caratteristiche extraeconomiche che costituiscono l’«uomo integrale». Il lavoro viene elevato a punto di riferimento culturale e religioso, a veicolo di prospettive e di aspirazioni svincolate dal dibattito sulle teorie economiche, a un modello di un nuovo progetto di uomo prima che di società. La dimensione individuale, insita nella concezione borghese del lavoro, sovrasta ogni forma comunitaria. Secondo il fascismo se l’imprenditore deve scegliere tra un’opera ad alto contenuto sociale ma a basso rendimento economico e un’altra a massimo rendimento e minimo valore sociale sceglierà senza dubbio la seconda opzione.

PER UN “UMANESIMO DEL LAVORO”

È la concezione spiritualista del lavoro a essere centrale nell’idea fascista, il lavoro non deve essere più fatica, imbruttimento, strumento per poter sopravvivere ma deve essere conquista, gioia, consapevolezza che esso contribuisce non ad aumentare la ricchezza personale ma a determinare la potenza della nazione. Solo in un più alto fine il lavoro umano può trovare la sua giustificazione e la sua sublimazione, smettendo di essere quella fatica e quella miseria rappresentata dal lavoro schiavistico dell’uomo-macchina. Il fascismo, vuole dare vita a quello che Gentile chiama “umanesimo del lavoro” e che consiste nel liberare l’attività produttiva dall’alienazione e dall’esclusivo intendo economico, riportando al centro del sistema sociale lo spirito dell’uomo:

«All’umanesimo della cultura, che fu pure una tappa gloriosa della liberazione dell’uomo, succede oggi o succederà domani l’umanesimo del lavoro. […] Lavora da uomo, con la coscienza di quel che fa, ossia con la coscienza di sé e del mondo in cui egli s’incorpora. Lavora dispiegando cioè quella stessa attività del pensiero, onde anche nell’arte, nella letteratura, nell’erudizione, nella filosofia, l’uomo via via pensando pone e risolve i problemi in cui si viene annodando e snodando la sua esistenza in atto. […] Via via la materia con cui, lavorando, l’uomo si deve cimentare, si alleggerisce e quasi si smaterializza; e lo spirito per tal modo si affranca e si libera nell’aer suo, fuori dello spazio e del tempo: ma la materia è già vinta da quando la zappa dissoda la terra, infrange la gleba e l’associa al conseguimento del fine dell’uomo. Da quando lavora, l’uomo è uomo, e s’è alzato al regno dello spirito, dove il mondo è quello che egli crea pensando: il suo mondo, sé stesso».

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