IL MONARCHISMO ITALIANO NEL DOPOGUERRA: TRA QUESTIONE SOCIALE E OPPOSIZIONE NAZIONALE

IL MONARCHISMO ITALIANO NEL DOPOGUERRA: TRA QUESTIONE SOCIALE E OPPOSIZIONE NAZIONALE

di Diego Benedetto Panetta

Alla vigilia delle elezioni del 1946 la situazione politica italiana viveva momenti di grande convulsione. Il quadro che di lì a poco sarebbe emerso avrebbe visto la Democrazia Cristiana divenire il primo partito con oltre otto milioni di suffragi. Le sinistre, formate dal Partito Comunista e dal Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria seguivano alle spalle. Considerate unitariamente esse detenevano complessivamente poco più di nove milioni di voti.

Contemporaneamente alle elezioni valevoli per l’Assemblea Costituente, si svolgeva il referendum per scegliere la forma istituzionale. Il monarchismo era ancora vivo nelle menti e nei cuori degli italiani. Benché esso si presentasse organizzato in una lista, la Concentrazione Nazionale Democratico Liberale, che raccoglieva al suo interno ben tre formazioni politiche unitesi in occasione dell’importante appuntamento elettorale, esso non rappresentava semplicemente un sentimento, piuttosto era avvertito come un «istituto mistico»[1] che impegnava trasversalmente uomini politici di diversa sensibilità politica.

La Corona, del resto, è essenzialmente un’istituzione impegnata a garantire la continuità, nella tradizione dello stato, e l’unione degli italiani di qualunque credo politico. La trasversalità le è inscritta nel Dna e l’amor di patria è l’esclusivo e il supremo elemento unificante attorno al quale aspira a raccogliere il popolo.

Questo aspetto era attentamente considerato dai suoi fautori a tal punto che non poche discussioni sorsero sull’opportunità della creazione di una lista o di una formazione dichiaratamente monarchica, stante l’essenziale apartiticità del monarchismo. I dieci milioni e settecentomila suffragi espressi per la monarchia, in occasione del referendum istituzionale, fotografavano tale realtà in tutto il suo nitore[2].

All’indomani della vittoria repubblicana e della scelta da parte di re Umberto II di lasciare il suolo nazionale, in segno di protesta verso il presidente dell’Esecutivo, Alcide De Gasperi, che aveva assunto il ruolo di Capo provvisorio dello Stato ben prima di attendere la proclamazione dei risultati da parte della Suprema corte di Cassazione, una parte consistente di monarchici scelsero l’impegno partitico fondando il Partito Nazionale Monarchico[3].

Fondatore e segretario nazionale nonché simbolo, tra i più illustri, del monarchismo italiano è sicuramente Alfredo Covelli. Covelli, professore e ufficiale dell’Aereonautica durante l’ultimo conflitto, già deputato all’Assemblea Costituente, fondò il partito pochi giorni dopo gli esiti del referendum, nel giugno del 1946.

Nei disegni di Covelli, il Partito Nazionale Monarchico avrebbe dovuto rappresentare non solamente il partito dei monarchici, bensì tutti gli italiani fedeli alla Patria e avversi alle esasperazioni ideologiche che si contrapponevano in quel periodo.

L’itinerario politico di Covelli – spiega Francesco Perfetti – […] si sviluppò, infatti, con lucida coerenza, lungo la direttrice indicata dal suo impegno giovanile: la costruzione, cioè, di un partito di destra moderna e moderata, liberale e democratica, responsabile e lontana da ogni integralismo ideologico, fiduciosa nel ruolo delle istituzioni parlamentari[4].

Covelli immagina per il Partito che dirige un ruolo ben preciso nell’infuocato scenario politico che ha dinanzi. L’appello alla pacificazione nazionale, non scevro da un voluto appello alla coscienza religiosa della stragrande maggioranza degli italiani, è chiaro e netto sin dal 1948. «Occorre forse perdonare, ancora perdonare, sempre perdonare – è l’appello che intona con forza durante un comizio a Milano – E onorare la memoria di coloro che sono morti, dalle due parti della barricata, come di combattenti per la causa dell’Italia che sovrasta tutto e tutti»[5].

Dall’appello alla pacificazione ne segue l’invito a costruire un fronte di destra che ambisca ad essere quel “blocco nazionale” in grado di fronteggiare la sinistra e di erodere consensi alla Democrazia Cristiana. «Nell’attuale schieramento politico italiano – afferma il leader monarchico – il PNM si qualifica come partito di opposizione nazionale»[6].

«Opposizione nazionale» che era al tempo stesso istituzionale e politica. Avendo cura e determinazione nel convincere gli elettori che i monarchici si ponevano all’interno del perimetro istituzionale democratico, rivendicando con forza la loro identità, denunziando le inefficienze del sistema repubblicano, dell’azione governativa della Democrazia Cristiana e delle forze di sinistra al suo seguito. «Complicità», «ipocrisie», «incertezze»[7] erano gli atteggiamenti e i melliflui volteggiamenti che venivano imputate alla Democrazia Cristiana, non solamente nell’immediato dopoguerra, ma lungo tutta la sua lunga esperienza governativa, e che verranno duramente stigmatizzate da Alfredo Covelli.

Uno degli aspetti più interessanti dell’elaborazione politica monarchica è quella riguardante la riforma strutturale dell’ordinamento sociale repubblicano. Tale prospettiva sarebbe rimasta sullo sfondo dell’azione politica dei monarchici sino al loro inglobamento nelle fila del Movimento Sociale Italiano, per dare avvio a quella Costituente di Destra, da sempre auspicata dal segretario Covelli.

«L’unica, la vera, la grande riforma di struttura necessaria ed urgente per l’assetto sociale del popolo italiano – afferma Covelli – […] sarebbe la ricostruzione su basi democratiche, senza controllo di partiti né unici né prevalenti, del suo ordinamento corporativo»[8]. Essa riposa su di una visione dello stato di ordine naturale, conforme al fine di questo che è quello di promuovere il bene comune.

Avviene infatti per impulso di natura che, siccome quanti si trovano congiunti per vicinanza di luogo si uniscono a formare municipi, così quelli che si applicano ad un’arte medesima formino collegi o corpi sociali; di modo che queste corporazioni, con diritto loro proprio, da molti si sogliono dire, se non essenziali alla società civile, almeno naturali», spiega papa Pio XI[9].

L’ordinamento corporativo, già cardine della politica economica fascista e tassello importante della Dottrina sociale della Chiesa, minava alla radice sia la concezione marxista dell’uomo (“religiosamente” votato alla lotta di classe) sia la visione liberale, che rende questi un atomo isolato tra molti, lasciato in balia dell’onnipotenza dello stato o dei mercati, capaci autonomamente di regolarsi[10].

Lungo questa traiettoria ideale e programmatica, Covelli, a nome del Partito Nazionale Monarchico, auspica di «liberare le organizzazioni sindacali dalla soggezione dei partiti politici, ricostruire la collaborazione di classe attraverso la collaborazione sindacale dal nucleo fondamentale dell’azienda sino all’unità economica della Nazione»[11]. Per operare tale ricostruzione è necessario però compiere un cambio di rotta e «restituire alle organizzazioni sindacali così dei datori di lavoro come dei lavoratori e dei tecnici la rappresentanza tecnica e giuridica delle categorie e dei loro problemi»[12] affinché si investa loro «della rappresentanza delle categorie così nelle assemblee amministrative comunali e provinciali come in una delle due Camere del Parlamento nazionale»[13].

Bisogna rompere l’equivoco classista – denunzia Covelli – e bisogna persuadere i nostri amici, i nostri fratelli operai che si tratta di un pericoloso equivoco dei quali essi per prima hanno l’interesse – interesse anche economico – di liberarsi […] – ribadendo con forza che – il nucleo della vita produttiva non è la classe, semplice invenzione demagogica, ma è l’azienda, realtà economica e sociale: quell’azienda della cui produzione gli operai, i tecnici, i capitalisti sono insieme – sibbene in maniere e con funzioni diverse – i soggetti, e dei quali sono quindi insieme corresponsabili ed insieme debbono, equamente, godere e ripartire i profitti[14].

Opposizione istituzionale, dunque, alla forma repubblicana in ragione delle laceranti divisioni che essa produce nella Nazione. Opposizione politica, a causa del falso dualismo Democrazia Cristiano-Partito Comunista per ciò che esso significa in termini politico-economici. Nelle intenzioni di Covelli la voce del monarchismo italiano deve farsi portavoce di un amore spassionato per la Patria e della volontà di ricercare una pacificazione nazionale e sociale, che passi da una rinnovata conferma della propria identità religiosa.

Noi del PNM non soltanto accettiamo – per la nostra personale convinzione religiosa – i principi morali della Chiesa cattolica e non soltanto riconosciamo a lei – secondo la lettera e lo spirito dell’art. 1 dello Statuto Albertino e secondo lo spirito e la lettera dei Patti Lateranensi – il diritto di essere la religione dello Stato italiano. Noi, per le nostre convinzioni e per i nostri atteggiamenti sociali, accettiamo i grandi principii della scuola sociale cattolica, anche se li interpretiamo in maniera diversa – e, crediamo, più conforme al loro spirito – di quando oggi non mostri praticamente di interpretarli il partito della Democrazia cristiana[15].

Per tali vibranti accenti la vita del PNM sarà costellata da diverse scissioni, spesso provocate ad arte dalla Democrazia Cristiana, la quale temeva potesse sorgere alla sua destra un punto d’equilibrio che avrebbe nuociuto alla sua tattica elettorale di apertura a sinistra[16].

Uno dei tentativi più importanti di realizzare l’unione delle destre si verificò in occasione delle elezioni amministrative di Roma del 1952. Con l’avallo di papa Pio XII, uomini fidati della curia romana, guidati da mons. Roberto Ronca, invitarono De Gasperi a costituire una lista civica che comprendesse oltre alla Democrazia Cristiana anche il Partito Liberale, il Partito Nazionale Monarchico e il Movimento Sociale Italiano. Lo spirito dell’alleanza mirava ad una duplice finalità: scongiurare l’ipotesi che la capitale della Cristianità potesse finire in mano alle sinistre; ricompattare un fronte di forze su un dichiarato anticomunismo e, quindi, così facendo, dicendosi non disposto a governare con i comunisti ed i socialisti. La lista elettorale avrebbe avuto come candidato l’ex leader popolare don Luigi Sturzo, da lì il nome di “operazione Sturzo” datagli dai cronisti[17].

De Gasperi si oppose energicamente al progetto scontrandosi con la volontà dello stesso Pio XII[18], il quale si rifiuterà di riceverlo sino alla sua morte[19]. Il fallito tentativo di veder unite le destre non scoraggerà però Alfredo Covelli, il quale nel 1972 poté finalmente vedere realizzata la sua aspirazione attraverso la disponibilità del Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante a formare, come indicava il nuovo nome del partito – assegnatogli per l’occasione – una grande “destra nazionale”, che vedesse monarchici e missini uniti in una sola formazione politica.[20]


[1] Celebri sono le parole riferite ad Umberto, nelle quali il “re di Maggio” condensa la visione che egli ha della monarchia: «La repubblica si può reggere col 51%, la monarchia no. La monarchia non è un partito. È un istituto mistico, irrazionale, capace di suscitare negli uomini incredibile volontà di sacrificio. Deve essere un simbolo caro o non è nulla».

[2] Emblematica, in tal senso, è la testimonianza di Giulio Andreotti, il quale ha rivelato che sebbene gran parte dei quadri e dirigenti della Democrazia Cristiana fossero repubblicani, l’elettorato viceversa votò in grandissima parte per la monarchia. Cfr. G. Andreotti, Intervista su De Gasperi, a cura di A. Gambino, Laterza, Bari 1977, p. 40. Cfr. G. Galli, I partiti politici italiani (1943-2004), Rizzoli, Milano 2004, p. 43.

[3] Cfr. «Partito il Re […] rimanevano in Italia i 10.719.284 monarchici […]. Tra i 10.719.284 monarchici sorse un gruppo di cittadini a considerare se storia e cronaca consentissero di tutto dimenticare, ammainando le bandiere e mortificando gli spiriti. Sorse così il Partito Nazionale Monarchico». (C. Degli Occhi – P. Operti, Il Movimento monarchico, Nuova Accademia Editrice, Milano 1958, p. 13).

[4] F. Perfetti, Alfredo Covelli: la coerenza di un progetto politico, in Archivio storico della Camera dei Deputati, Alfredo Covelli, Roma 2009, p. 3.

[5] A. Covelli, La costituente e la prospettiva monarchica (1948), in Archivio storico…, op. cit., p. 31.

[6] Idem, Il ruolo alternativo al Comunismo ed alla Democrazia cristiana del “Partito nazionale monarchico” (1948), in Archivio storico…, op. cit., p. 40.

[7] Ivi, p. 41.

[8] Ivi, p. 44.

[9] Pio XI, Lett. Enc. Quadragesimo Anno, cit., § 84.

[10] Ivi, § 79.

[11] A. Covelli, La costituente e la prospettiva monarchica (1948), in Archivio storico…, op. cit., p. 45.

[12] Ibidem.

[13] Ibidem.

[14] A. Covelli, Pacificazione nazionale, pacificazione sociale (1950), in Archivio storico…, op. cit., p. 73

[15] Ibidem.

[16] La più nota e rilevante è quella guidata dall’armatore napoletano, futuro sindaco di Napoli, Achille Lauro. Questi, il 2 giugno 1954, fonda il Partito Monarchico Popolare, in contrarietà alla linea segretario del PNM Covelli, reo di non aprirsi al dialogo con la Democrazia Cristiana. Due anni prima, il 22 gennaio 1952, la “corrente di sinistra” fuoriesce dal partito per fondare il Fronte Nazionale Monarchico, ad opera di Giovanni Alliata di Montereale e Alberto Consiglio. (Cfr. G. Nicolosi (a cura di), I partiti politici nell’Italia repubblicana. Atti del convegno di Siena 5-6 dicembre 2002, Rubbettino, Soveria Mannelli(CZ) 2006, p. 420.

[17] Sull’operazione Sturzo cfr. A. Riccardi, Il “partito romano”. Politica italiana, Chiesa cattolica e Curia romana da Pio XII a Paolo VI. Brescia, Morcelliana, 2007; Idem, Il “partito romano”, in Enciclopedia Italiana, in URL: <https://www.treccani.it/enciclopedia/il-partito-romano_%28Cristiani-d%27Italia%29/> (03.02.2021).

[18] «Il suo (Pio XII) contrasto con De Gasperi era netto». (G. Andreotti, Intervista su De Gasperi, a cura di A. Gambino, Laterza, Bari 1977, p. 103). Cfr. R. de Mattei, Il centro che ci portò a sinistra, Edizioni Fiducia, Roma 1994, pp. 25-27.

[19] Cfr. «Più che talune espressioni sfuggite al Papa in alcuni suoi sfoghi con le persone che godevano della sua amicizia, lo documenta in modo inoppugnabile il rifiuto dell’udienza chiesta dall’uomo politica nel giugno 1952, a poche settimane dall’ “operazione Sturzo”, in occasione del suo trentesimo di matrimonio e della professione perpetua della figlia suor Lucia. Maria Romana Catti De Gasperi ha raccontato l’amarezza che il rifiuto provocò al padre, fino a dichiarare all’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede che se come cristiano accettava l’umiliazione, come Presidente del Consiglio protestava e chiedeva spiegazioni». (G. Martina, La Chiesa in Italia negli ultimi trent’anni, Studium, Roma 1977, pp. 35-36).

[20] Cfr. G. Galli, I partiti politici italiani (1943-2004), cit., p. 156.

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