La bandiera della Partecipazione

La bandiera della Partecipazione

Una nuova cultura del lavoro per leggere i cambiamenti in atto con il contributo delle donne

di Marina Vuoli Buontempo

Si corre per lavorare, si corre per fare la spesa, si corre per portare i figli a scuola. Ma nelle grandi città si resta fermi nel traffico, si resta fermi alle fermate dei mezzi. Si resta fermi alle code dei servizi pubblici. La gestione dello spostamento spazio temporale  specialmente nelle grandi città, per accedere a quello che è un diritto fondamentale: l’accesso al lavoro  presenta costi umani senza precedenti.  Questo è lo scenario anche dopo il Covid. Infatti  i grandi mutamenti provocati dal virus hanno si interessato l’organizzazione del lavoro, aprendo porte e portoni allo “smart-working”, ma non ne hanno modificato la “cultura”. Anzi se possibile hanno aggravato le condizioni dei lavoratori. Il lavoro in remoto, salutato all’inizio come un sistema “intelligente”  perché sfrutta le potenzialità delle nuove tecnologie e riduce i tempi morti degli spostamenti e degli inquinamenti connessi, se non viene bene regolamentato alla luce di una nuova cultura del lavoro rischia infatti di tradursi nel  migliore sistema per mettere i lavoratori in catene. Senza contare che la tendenza alla espulsione dei lavoratori nel nostro sistema produttivo anche grazie alla AI è  la prassi. Poiché le donne hanno pagato prezzi altissimi per essere presenti nel sistema produttivo, in molti casi, anche con la rinuncia alla maternità ci sembra giunto il momento  di vedere se da esse possa venire la proposta per una nuova cultura, che ci aiuti a leggere il cambiamento: innalzando la bandiera della Partecipazione .  

Le leggi del mercato applicate al lavoro

Le donne sono consapevoli innanzitutto della prima legge del mercato applicata al lavoro: A parità di qualità una merce più cara resta invenduta. Oggi rivolta alle donne ma un domani a tutti i lavoratori italiani ed europei,  uomini e donne indistintamente, che hanno  la colpa di lavorare in forza di un contratto, magari indeterminato, strumento normativo sempre più raro.

Non sarà proprio questa la ragione di fondo che ha alimentato le delocalizzazioni della produzione  dal nostro paese negli anni passati, desertificando il nostro sistema produttivo? La ricerca di mano d’opera a prezzo più competitivo ha portato a de localizzare le produzioni, salvo poi accorgersi che esse risultavano fallate. E quello che sembrava un risparmio si trasformava al contrario in un costo aggiuntivo.

L’Italia non può arrendersi alla crisi che l’attanaglia, che è crisi di sistema prima ancora che economica, senza prendere coscienza che proprio in Italia sono nate le più importanti conquiste sociali a tutela del lavoro e soprattutto della dignità dei lavoratori.

La presente riflessione dunque intende evidenziare la pressione dei grandi mutamenti sociali che hanno modificato in profondità il nostro paese e sono pagati spesso in prima persona dalle donne.  Esistono infatti letture sottili che testimoniano il vero disagio della società odierna: le donne oggi tra la busta paga e la culla sono spesso costrette a scegliere la prima. La rinuncia alla maternità non costituisce solo una rinuncia individuale ad un progetto di vita, ma ove estesa come costume segna di tutta evidenza il destino di un popolo e lo condanna alla estinzione.

La crisi demografica

La demografia non è una opinione e “misura” il malessere profondo di un paese. Già trenta anni or sono la denuncia del Prof. Golini, ordinario di Demografia presso l’università La Sapienza rimase inascoltata. In verità si parla del fenomeno dell’invecchiamento della popolazione a livello globale, ma l’Italia è tra  paesi in cui tale processo è più avanzato. I mutamenti demografici evidenziano anche un allungamento delle speranze di vita, che in sé sarebbe una bella notizia se non fosse che coniugata con le ripercussioni sul decremento della natalità evidenziano purtroppo scenari estremamente preoccupanti. I dati demografici dell’Italia sono lì a dimostrare, anche se i numeri non vengono approfonditi a sufficienza, che già nel 1991 il tasso di fecondità italiano era di 1,21%, ovvero sotto il 40% della crescita zero (già quest’ultimo un segnale di pericolo in campo demografico); che diventa 1,42% nel 2009 oltretutto con il contributo delle nascite da genitori stranieri.  Diceva il Prof. Golini, che “per capire i segnali di pericolo di una scienza come la demografia bisogna pensare alla  similitudine con le valanghe, quando ne senti  il rumore è già troppo tardi”. E questo “rumore” era denunciato dagli esperti già da una trentina di anni, pur restando “sempre” inascoltato.

Certo la mancanza di servizi, di politiche attive a sostegno della famiglia sono fattori che influenzano la demografia. Ma la questione più grave che intendiamo segnalare è il fatto che nel computo della popolazione non sono più conteggiati quelle centinaia di  migliaia di giovani che hanno lasciato l’Italia e che rappresentano le vere risorse di cui essa si priva proprio per l’aspetto demografico e dunque per disegnarne il futuro. 

Che fare? Rompere il tetto di vetro

Si vuole dare una lettura a tutto campo per denunciare innanzitutto un modello di sviluppo che mostra  le sue crepe e soprattutto nega al cittadino di partecipare alle scelte che lo riguardano. Per questa ragione abbiamo utilizzato una espressione molto in voga nelle tematiche femminili che dimostra come il cittadino crede di partecipare ma in realtà le scelte sono effettuate in altro ambito, proprio come accade con  il tetto di vetro quando le donne vedono sulla loro testa che delle decisioni vengono adottate senza che ad esse possano mai contribuire.

Questo è vero sia nella vita di tutti i giorni, in cui vengono disattese le richieste di partecipazione del cittadino alla conoscenza dei processi decisionali che lo riguardano sia nel mondo produttivo, dove la bandiera della partecipazione è ben lontana dall’essere sventolata.

Per dare una risposta alle necessità di cambiamento che la situazione richiede riprendiamo allora una riflessione che fece Simone Weil già nel ’37 nel suo libro “La razionalizzazione del lavoro”: “La soluzione ideale, sarebbe un’organizzazione del lavoro tale che ogni sera uscissero dalle fabbriche il maggior numero di prodotti ben fatti e di lavoratori felici. Questo il vero problema, il problema più grave  che si pone alla classe operaia: trovare un metodo di organizzazione del lavoro che sia accettabile simultaneamente dalla produzione, dal lavoro e dal consumatore. Questo problema non si è nemmeno incominciato a risolverlo, perché non è stato posto”.

Ebbene il problema è di straordinaria attualità anche ai nostri giorni e siamo convinti che sia giunta l’ora proprio di porre sul tappeto questa questione per dare una nuova lettura alle tematiche sopraesposte.

In epoca di crisi poi con una disoccupazione giovanile  intorno al 23,0% (dati Istat a novembre 2022) la verità che non si può dire ma è la realtà è  che: SI LAVORA TROPPO E MALE, sia negli orari di lavoro che nei trattamenti pensionistici aggravati dalla  famosa Riforma Fornero, che trattiene oltre misura i lavoratori in servizio bloccando il Turn-Over per i giovani.

Il sistema è obsoleto, la rappresentanza è obsoleta, i riti del lavoro sono obsoleti. Serve una nuova cultura che guarda caso è molto diffusa nel mondo ma che poca eco ha avuto in Italia: la cultura della Qualità unita a quella della PARTECIPAZIONE.

Eppure un sociologo del lavoro italiano, Domenico Masi, professore alla Sapienza di Roma, lo dice da decenni, inascoltato: “Parlare di produttività significa non aver capito il mondo, quando si parla poi di lavoro non ha senso. Non nel mondo contemporaneo, in cui il 70% del lavoro è di tipo intellettuale e non fisico.” L’innovazione tecnologica poi  avrebbe dovuto accelerare i processi organizzativi invece ancora in Italia si lavora per funzioni e non per Obiettivi. 

Alla scoperta del CSR

Il CSR, Corporate Social Responsability, ovvero la bandiera della Partecipazione, è essenzialmente :”un concetto con cui le imprese decidono l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate. Essere socialmente responsabili significa non  solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là, investendo di più nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le parti interessate  (Commissione europea, 2001). Dichiarazione in linea con il messaggio relativo alla Strategia per l’Europa concordata a Goteborg dal Consiglio Europeo del Giugno 2001 sullo Sviluppo Sostenibile.

Anche se applicata a livello internazionale con una  serie di indicatori che ne misurano la performance con azioni sia interne che esterne, in Italia non ha trovato un’eco a livello di “coscienza sindacale” o meglio di trattative per implementare i migliori indicatori utili per favorire il personale e le imprese nell’adozione di questa strategia.

Per riflettere sulla sua applicazione vediamo che il rapporto Socrates: The Corporate Social Ratings Monitor sintetizza sei ambiti in cui a livello internazionale trova applicazione la strategia del CSR, essi sono :

1) Community Support; Diversity; 3) Employee relations 4) Environment 5) Human Right; e 6) Product

Inoltre tramite il CSR viene data la possibilità alle imprese di attrarre figure lavorative maggiormente qualificate. Tra le sue finalità infatti vi è quella adottare una serie di misure per rafforzare l’istruzione e la formazione lungo tutto  l’arco della vita; ma anche politiche per la responsabilizzazione del personale. La politica del CSR prevede inoltre un miglioramento del circuito d’informazione nell’impresa, un migliore equilibrio tra lavoro, famiglia e tempo libero; il rispetto della diversità nelle risorse umane, l’applicazione del principio di uguaglianza   per le retribuzioni e le prospettive di carriera delle donne, la partecipazione ai  benefici e annesse formule di azionariato, nonché l’approfondimento di tutte le tematiche della sicurezza sul posto di lavoro e del rispetto ambientale.

Una nuova forma di retribuzione: il tempo

Ecco perché il CSR, questa nuova cultura del lavoro, risponde in pieno all’interrogativo che si poneva Simone Veil nel 1937 e che nel Terzo millennio, specialmente nell’era delle più sofisticate trasformazioni tecnologiche diventa assolutamente strategico sia per la tutela dei lavoratori/lavoratici, dei loro posti di lavoro, delle imprese e dei consumatori. L’argomento merita anche di essere calato in normative contrattuali ad hoc per dare consapevolezza ai lavoratori/lavoratrici di non essere solo dipendenti ma soci dell’azienda in cui lavorano. La grande innovazione del sindacato infatti è a questo punto di farsi carico proprio di queste innovazioni culturali ed organizzative per non tutelare più solo le condizioni di lavoro, ma diventare attore protagonista della modernizzazione del paese. Il tema è complesso e sensibile, ma garantisce risultati  tangibili sia per i lavoratori che per le imprese con l’adozione della strategia connessa al CSR. Lavorare per obiettivi con l’adozione delle tecniche del miglioramento continuo non può portare ad altro che a lavorare di meno grazie al raggiungimento facilitato dei risultati. D’altronde il risparmio di tempo che poi sono TEMPI di VITA  non può che migliorare le condizioni di benessere in generale del personale con il massimo coinvolgimento possibile.

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