Di Flaminia Camilletti
Il potere tecnocratico nell’ultimo secolo è cresciuto in modo esponenziale, tuttavia sono ancora pochi gli autori e gli intellettuali che si impegnano ad affrontare questo tema. Non è il caso del professor Lorenzo Castellani, docente di Storia delle Istituzioni Politiche presso la Luiss Guido Carli di Roma: la sua ultima pubblicazione infatti si intitola “L’ingranaggio del potere” edito da Liberi Libri. L’autore affronta il tema dell’erosione della rappresentatività democratica che allontana la comunità dalle istituzioni a favore di una tecnocrazia lontana e fredda. La storia della democrazia tecnocratica è passata sottotraccia, come scrive lo stesso Castellani, ma è bene approfondirne le evoluzioni essendo diventata il centro della nostra governance nazionale e sovranazionale. Come si sottolinea nel libro, sempre più spesso la politica risulta incapace di adottare misure impopolari, di affrontare i gruppi di pressione, di selezionare una classe dirigente preparata, alienando infine il proprio potere esecutivo e le proprie responsabilità cedendole a comitati scientifici e task forces formate da individui non eletti scelti sulla mera base della competenza.
1. Professore, uno dei concetti più centrali ed interessanti del libro, affrontato all’inizio e poi di nuovo nella parte finale, tratta della trasformazione dell’élite. Nello specifico del passaggio che si fa dall’aristocrazia alla competenza scientifica con una nuova élite della conoscenza. Questo ha scatenato una nuova lotta di classe cui assistiamo oggi con i populismi?
Non parlerei tanto di lotta di classe perché il reddito è spesso più disperso di ciò che pensiamo. Non è raro trovare un imprenditore di provincia o un artigiano che guadagnino molto più di giornalista laureato in una università di élite. Spessissimo, però, queste due categorie sociali si rifanno a culture molto diverse, se non opposte. È, dunque, una divisione culturale e geografica. Da un lato il mondo degli specializzati e dei professionalizzati dei centri urbani, che lavorano nei servizi o nella dirigenza statale e di aziende globali, che coltivano una mentalità cosmopolita. Dall’altro quello dei produttori territorializzati, delle partite IVA, dei lavoratori meno scolarizzati, assai meno disposti ad accettare l’assenza di confini nazionali o la mobilità assoluta del lavoro e dei capitali. Oggi, inoltre, la competenza certificata dalle istituzioni educative è uno status, come nelle gilde medievali, che permette l’accesso a certi ambienti o a certi incarichi. Chiunque può diventare deputato, ma nessuno che non abbia una laurea ed una formazione post-laurea, e le relazioni che ne conseguono, potrà mai diventare direttore generale della commissione europea, governatore di una banca centrale, presidente di una authority o consulente del governo. Ed oggi è in questi luoghi che risiede gran parte del potere pubblico, poiché le istituzioni rappresentative hanno perso centralità. La rivendicazione della competenza è diventato un modo per legittimare il proprio potere politico a trazione tecnica.
2. Possiamo definire la tecnocrazia come una sorta di taylorismo applicato alla politica?
Si, assolutamente. È l’idea che la politica possa essere ridotta a procedure, vincoli, regole stabilite da “coloro che sanno” e secondo presunti canoni scientifici. È una visione manageriale della politica, in cui passioni, irrazionalità, ideologie possono essere travolte sulla base di una razionalità strumentale. Naturalmente quella della tecnocrazia, di ogni estrazione, è un’aspirazione e spesso un’illusione. La politica non è riducibile né al diritto né a principi meramente economici o scientifici. I tecnocrati s’ingannano di poter detenere tutta la conoscenza necessaria per pianificare la vita sociale e sulla base di ciò cercano di aumentare il proprio potere politico, di risucchiare decisioni e risorse in istituzioni burocratiche o finanziare o giudiziarie.
3. “Il potere ha cambiato forma”. Si tratta di un bene o di un male?
Più che altro si tratta di un fatto. Il mondo politico di oggi è molto diverso da quello di cinquant’anni fa. Gli Stati-nazione hanno perso centralità, le istituzioni rappresentative hanno alienato molte funzioni a burocrazie multilivello, le banche centrali sono molto più indipendenti dal potere politico, la società è molto più frazionata ed interconnessa col resto del mondo, la sovranità è oramai dispersa. Di fatto lo Stato è rimasto come amministrazione, ma le decisioni sono disperse tra numerosi enti locali, nazionali, sovranazionali e globali. È un potere mobile, ma sempre più irresponsabile. Restano, infatti, inevase alcune domande: chi controlla i controllori (tecnici)? Chi risponde ai cittadini? Il principio “nessuna tassazione senza rappresentanza” è ancora rispettato? La divisione tra poteri esiste ancora? Gran parte della classe intellettuale occidentale rifiuta di porsi queste domande.
4. Passando all’attualità: la crisi sanitaria ci ha portato all’apice della governance delle task forces?
Si. La pandemia ha accelerato la tendenza in corso. Oggi siamo ancora più invasi di task forces tecniche, comitati scientifici, commissari onnipotenti. La burocrazia è in piena espansione, così come una legislazione sempre più fuori controllo ed extraparlamentare. Inoltre, lo Stato sarà più coinvolto nell’economia, ma nell’emergenza il rischio è che faccia la fortuna di pochi e la rovina di molti. Ciò che questa pandemia ci mostra è una connessione sempre più forte tra il grande capitalismo e le burocrazie, col rischio di un socialismo “tra grandi” e del sacrifico di tante attività minori.
5. L’economia delle istituzioni europee viene considerata “apolitica, neutrale e tecnica” come riporti nel tuo libro citando il giurista Irti. Perché, invece, non è così?
La lezione di Irti ci insegna che non esistono decisioni neutrali. Siamo sulle orme di Carl Schmitt e della sua teoria della decisione. Il lavoro intellettuale come professione ed il lavoro politico come professione sono due mestieri che restano sempre distinti. Il potere politico decide ed è sempre una scelta tra valori, una gerarchia di priorità. Ciò avviene anche quando la decisione viene assunta da un tecnico. Con la differenza che un tecnocrate se va al governo allora diventa un politico come gli altri, mentre se resta nelle sue istituzioni non maggioritarie non deve rispondere a nessuno delle scelte che compie. Comunque la si veda c’è un problema politico. O perché la politica scarica sui tecnici le responsabilità o perché ci sono troppi luoghi dove si prendono decisioni pubbliche che non rispondono a nessuno (burocrazie, magistrature, enti e fondi pubblici). In definitiva, nel campo politico e sociale, non esistono decisioni neutrali o tecniche. Sono delle maschere per nascondere responsabilità o per legittimare poteri non rappresentativi.
6. Nelle conclusioni scrivi che il paradosso finale dell’ingranaggio del potere è che più si espande e diviene sofisticato più si indebolisce nella legittimazione. Dove ci sta portando questa spirale di non ritorno?
Ad un conflitto sempre più forte tra la ricerca di una rappresentanza politica da parte di gran parte della società ed un sistema istituzionale sempre più vasto e complesso. Un meccanismo che non sembra gestibile senza corpi tecnici che erodono sempre di più lo spazio di potere della rappresentanza e l’autonomia degli enti più prossimi alla comunità in cui si svolgono le vite di ancora gran parte delle persone. Per banalizzare, potremmo dire che sul piano politico c’è uno scontro tra tecnocrazia e populismo, perché l’equilibrio della loro inevitabile coesistenza si è rotto. Gli ultimi due secoli li abbiamo passati ad emancipare la sovranità degli individui su stessi, ad allargare la partecipazione al potere politico, ma oggi alla grandissima parte di questi individui viene detto che non hanno il permesso di auto-governarsi e che i competenti decideranno per loro. I tecnocrati però hanno perso fiducia e legittimazione agli occhi del popolo; mentre i populisti faticano a governare il sistema per mancanza di forza politica ed istituzionale. La politica è troppo debole, la tecnocrazia troppo forte e l’ingranaggio non funziona più. Abbiamo così una letale combinazione di irresponsabilità politica e disfunzionalità amministrativa. Dovremmo tornare alla ricerca di una comunità concreta, ad una devoluzione dei poteri verso il basso, ad un diritto più spontaneo, a ricostruire i corpi intermedi e al rispetto del principio di sussidiarietà. Siamo in una gabbia d’acciaio in cui ci sentiamo sempre più soli, impotenti, lontani da istituzioni e regole che non possiamo controllare. Abbiamo perso il controllo su ciò che meglio conosciamo. Da lì, credo, viene gran parte del nostro malessere e del nostro nichilismo politico.
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