Di Marco Bachetti
“Il senso di essere utile e persino indispensabile sono bisogni vitali dell’anima umana. Una completa privazione di questo si ha nell’esempio del disoccupato, anche quando è sovvenzionato sì da consentirgli di mangiare, di vestirsi, di pagare l’affitto. Egli non rappresenta nulla nella vita economica e il certificato elettorale che dimostra la sua parte nella vita politica non ha per lui alcun senso.” (Simone Weil)
Fondata sul lavoro
Non sappiamo se i padri costituenti conoscessero Simone Weil, filosofa e mistica francese; certamente però lo spirito di questo brano tratto dalla sua opera magna ‘La prima radice’ (pubblicata nel 1943 poco prima di morire di tubercolosi) è pienamente recepito dalla Costituzione italiana la cui novità risiede nella caratterizzazione di fondare la Repubblica sul lavoro e di individuare quale sua missione storica la partecipazione di tutti, proprio per mezzo del lavoro, alla vita civile per contribuire, ciascuno secondo i propri talenti naturali, alla prosperità e al progresso sociale della comunità nazionale. In questo modo la democrazia da solo politica poteva divenire anche sociale ed economica; grazie alla forza propulsiva del lavoro e all’obbligo morale dello Stato di perseguire politiche di piena occupazione si passava da una forma procedurale di democrazia, debitrice del liberalismo ottocentesco, nella quale gli individui cittadini formavano il popolo come unità indifferenziata ed esprimevano i propri rappresentanti mediante l’atto della votazione, ad una forma più compiuta e sostanziale di democrazia in cui alla partecipazione alla vita politica nel momento elettorale si associava la partecipazione alla vita sociale ed economica irrinunciabile ai fini di un ‘pieno sviluppo della persona umana’. Il feticcio ideologico del liberalismo, l’individuo, poteva così espandersi in persona concepita non nella sua dimensione astratta di cittadino isolato, bensì quale essere reale nella concretezza dei suoi bisogni inserito dentro comunità intermedie nelle quali si esplica la sua personalità. Non sappiamo se i costituenti conoscessero Simone Weil, certamente Amintore Fanfani, formatosi sotto il piano filosofico sugli autori francesi del personalismo cristiano (Mounier, Maritain), non la ignorava. E il ruolo dell’aretino in Assemblea Costituente sta lì a dimostrarlo.
Fanfani e il capitalismo
Non possiamo comprendere a fondo l’apporto dato da Fanfani ai lavori della Costituente senza soffermarsi sulla sua riflessione accademica negli anni ’30 sulle origini del capitalismo, le potenzialità di questo sistema economico e gli strumenti per correggerne storture e ingiustizie. Fanfani è uno storico dell’economia, che da giovane laureato negli anni ’30 studia le origini storiche del capitalismo contestando la teoria autorevolmente espressa da Max Weber a inizio secolo, secondo cui il capitalismo nasce dall’etica calvinista che concepisce l’accumulazione di ricchezze come un segno, una prova terrestre che testimonia la predestinazione dell’anima alla salvezza eterna. Il capitale nasce così, secondo Weber, dalla ricerca nei profitti e nelle ricchezze di una prova di salvezza, un simbolo tangibile. Fanfani non è d’accordo e nega che un fenomeno socio-economico complesso come il capitalismo possa trovare a proprio fondamento un fattore solo teologico. I fatti si spiegano con i fatti e per Fanfani le origini del capitalismo sono da ricercare in cause storiche quali la peste del Trecento che ridusse drasticamente la popolazione, aumentando il patrimonio pro-capite, e il superamento della logica caritativa medioevale che costringeva, sulla base del sistema sociale allora vigente, il ricco a dare il sovrappiù ai poveri con l’elemosina; la crisi dei traffici commerciali in Italia tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, in seguito alla scoperta dell’America, aveva indotto i mercanti italiani a compensare la perdita dei ricavi con l’interruzione delle elargizioni distributive imposte dalla Chiesa. La Riforma protestante e lo spirito calvinista accentuarono tale processo, le cui origini sono però più lontane nel tempo e connesse a fattori storici ed economici, non già religiosi. Secondo Fanfani dunque, il capitalismo sorge allorquando il Medioevo si ammala di egoismo, peste e avarizia furono le sue cause originarie e la sua intera riflessione è volta alla ricerca di meccanismi temporanei e definitivi per ottemperare all’ingiustizia distributiva del capitalismo. Fanfani riconosce le potenzialità positive del capitalismo, il quale asseconda un istinto naturale dell’essere umano ossia la ricerca della massimizzazione della propria utilità con il minimo dispiego dei mezzi. Questo principio del minimo mezzo (o minimo costo) è stato nei secoli un potente vettore di miglioramento sociale, perché induce l’uomo ad inventare sistemi di produzione più efficienti e redditizi, ad abbattere i costi e risparmiare. “In questo senso l’uomo, proprio perché egoista, concorre a stimolare la produzione e a renderla sempre più economica.” Se il problema economico consiste nel soddisfacimento dei bisogni individuali e deve fare i conti con la scarsità delle risorse, il principio del minimo mezzo proprio del capitalismo favorisce la risoluzione di questo problema grazie al riconoscimento della libertà di intrapresa dei singoli che sprigionano le loro energie per ottenere la massima utilità. A questo punto però Fanfani si pone l’interrogativo della direzione verso cui si dirige il capitalismo per assicurarsi il minimo costo e la strada più naturale in tal senso è quella del contenimento dei salari, del restringimento delle protezioni distributive per i lavoratori: scarsa produttività del lavoro e stagnazione economica sono gli esiti naturali di questa condotta. L’aretino presenta una soluzione radicalmente alternativa allo scopo di ottenere tutti i vantaggi del capitalismo e della libertà di iniziativa senza che ciò comporti un aumento delle diseguaglianze e una crescente ingiustizia sociale: Fanfani distingue così il momento della produzione da quello della distribuzione, dovendo mantenere intatta la libertà economica e dunque ‘l’egoismo produttivo’ idoneo a sprigionare le energie positive presenti nella società, ma poi correggere le storture prodotte dall’accumulazione capitalistica nella fase distributiva passando da un’economia di mercato ad un’economia mista, liberale nel momento della produzione e controllata nel momento della distribuzione, grazie all’intervento dello Stato e al ruolo dei lavoratori stessi nella partecipazione alla gestione e agli utili delle imprese, che come vedremo costituisce il fulcro della proposta fanfaniana.
Fanfani padre costituente
Come molti altri cattolici, i quali cercavano di dare concreta applicazione alla Dottrina Sociale della Chiesa, Fanfani navigava nella terra di mezzo tra le filosofie individualistiche-liberali, ‘la scienza dell’Ottocento’ come era spregiativamente definita da Meuccio Ruini, e il collettivismo socialista che affrontava il problema della giustizia sociale lasciato insoluto dal regime liberale, annichilendo però l’individuo e la sua libertà. La necessità di coniugare libertà e giustizia sociale non era fortemente avvertita solo dai cattolici ma anche da quei socialisti liberali, che sulla scia di Rosselli avevano abbandonato il marxismo rivoluzionario per passare ad un riformismo laico che condivideva con il riformismo cattolico di Fanfani l’analisi dei difetti del marxismo nonché una certa ostilità verso il sindacato concepito come ‘figlio recalcitrante del capitalismo’ e la preferenza verso modelli di democrazia partecipativa nell’azienda. Il personalismo cristiano si differenzia dal socialismo liberale nella sua unità di misura fondamentale che non è l’individuo in cerca di emancipazione ma la persona nella sua naturale dimensione relazionale dentro le diverse formazioni sociali, quali la famiglia, l’impresa fino alle comunità politiche locali e nazionali. Fanfani si approccia ai lavori della Assemblea Costituente come membro della corrente milanese della Democrazia Cristiana, formatasi attorno all’Università Cattolica di Milano, facente capo a Giuseppe Dossetti (il quale di lì a pochi anni si sarebbe ritirato dalla vita politica lasciando lo scettro proprio a Fanfani). Questa corrente cristiano-sociale seguiva gli insegnamenti del personalismo di Mounier e Maritain e cercava di applicare la Dottrina Sociale della Chiesa propugnando una terza via tra liberalismo e socialismo, che intendeva risolvere il conflitto prodotto dalla sfrenata libertà economica alla radice e dunque dentro l’impresa grazie ad un’elevazione del senso più profondo del lavoro. Amintore Fanfani fu un assoluto protagonista di questo processo, componente della Terza Sottocommissione sui rapporti economici, ideatore di alcune delle formule e degli articoli più noti della nostra Carta costituzionale. La formulazione della Repubblica democratica “fondata sul lavoro”, inserita nell’articolo 1, è frutto dell’ingegno del politico aretino che propose questo emendamento per dare una caratterizzazione economico-sociale alla forma di Stato.
Non basta dire che l’Italia è una Repubblica democratica, come previsto nel progetto originario di Costituzione presentato dalla Commissione dei Settantacinque, “occorre che ci sia una precisazione intorno ad alcuni orientamenti fondamentali che storicamente caratterizzano la Repubblica italiana” (Aldo Moro). Si scelse così di ancorare la forma di Stato democratico e la sovranità popolare al lavoro, unica reale forza propulsiva per costruire una democrazia sociale ed economica. Nel dibattito in aula furono presentate tre formulazioni diverse: la prima del gruppo repubblicano per mano di La Malfa recitava “fondata sui diritti di libertà e del lavoro”, la seconda proposta da socialisti e comunisti “Repubblica democratica di lavoratori”, la terza infine su emendamento di Fanfani “fondata sul lavoro”. Nel presentare l’emendamento democristiano, Fanfani argomentò così: “dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale. Quindi, niente pura esaltazione della fatica […], ma affermazione del dovere d’ogni uomo di esser quello che ciascuno può, in proporzione dei talenti naturali, sicché la massima espansione di questa comunità popolare potrà essere raggiunta solo quando ogni uomo avrà realizzato, nella pienezza del suo essere, il massimo contributo alla prosperità comune. L’espressione ‘fondata sul lavoro’ segna quindi l’impegno, il tema di tutta la nostra Costituzione.”
Si respingeva altresì la formulazione delle sinistre della “Repubblica democratica di lavoratori”, considerata classista allorquando nel primo comma del primo articolo ci si doveva invece metter d’accordo sulla definizione del carattere costitutivo della Repubblica. I repubblicani di La Malfa ritennero la formulazione “fondata sul lavoro” troppo vacua e giuridicamente non pertinente, inadatta a un testo costituzionale, perciò decisero di proporre il riferimento ai ‘diritti del lavoro’ secondo una dizione più istituzionale. Risultò infine decisivo l’intervento di Togliatti che, a nome del gruppo comunista, respinse l’emendamento La Malfa preferendogli la proposta di Fanfani dal momento che la formula “fondata sul lavoro” si riferisce ad un fatto di ordine sociale mentre la formula proposta dai repubblicani sposta la questione su un campo prettamente giuridico e introduce una terminologia poco chiara e poco popolare. Fu così approvato l’emendamento Fanfani della “Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Sempre sul tema del lavoro si concentra l’opera di Fanfani in Assemblea Costituente e in particolare la sua proposta rappresentò la base del futuro articolo 4 che sancisce il diritto al lavoro. Le forze liberali si opposero con fermezza a questo concetto, dal momento che sembrava bizzarro introdurre un diritto ‘in senso giuridico’ al lavoro, come se il cittadino potesse citare in giudizio lo Stato inadempiente. In realtà Fanfani, alleato sotto questo fronte con il comunista Di Vittorio (segretario generale CGIL), partiva dalla premessa che se ogni individuo ha diritto alla vita, ciò significa che egli ha anche diritto a procurarsi le condizione per mantenersi in vita. Lo Stato ha dunque l’obbligo non giuridico ma morale di perseguire politiche di piena occupazione per garantire a tutti il lavoro e di conseguenza il diritto alla vita. Da questa visione trae origine l’articolo 4, primo comma: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo tale diritto”. Questa formulazione appositamente generica, in quanto introdotta tra i principi fondamentali, troverà poi un suo sviluppo nel titolo della Costituzione dedicato ai rapporti economici che vedrà Fanfani tra i suoi principali redattori. Ci soffermeremo in questa sede, per ragioni di economia della trattazione, sull’articolo 36 (giusto salario), sull’articolo 39 (sindacato) e sull’articolo 46 (partecipazione dei lavoratori). La disposizione sul giusto salario proporzionato al lavoro prestato e sufficiente a garantire per sé e per la propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa fu proposto dallo stesso Fanfani che spiegò: “Dopo aver affermato il diritto al lavoro […], è razionale stabilire in un articolo il diritto del lavoratore ad un compenso proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e che tenga conto delle sue necessità personali e familiari.” Il riferimento alle esigenze della famiglia non trovava tutti concordi e, secondo taluni, avrebbe potuto configurare una discriminazione tra lavoratori; Fanfani sostenne che la crescita dell’economia nazionale dipendeva essenzialmente dalla produttività del lavoro ed il lavoro è più produttivo se c’è ‘tranquillità familiare’. Questa condizione era però ostacolata da due elementi, l’insicurezza di un impiego stabile e i bassi salari. Il lavoratore insicuro, precario e sottopagato, incapace di provvedere serenamente alle esigenze della propria famiglia, non poteva essere massimamente produttivo in questo stato di disagio, a danno dello sviluppo economico. Anche i comunisti approvarono la linea Fanfani di riferire la retribuzione del lavoratore ai bisogni della famiglia mentre fu respinta la loro proposta di introdurre un salario minimo individuale quale ‘garanzia dell’eliminazione, nel campo del lavoro, del pauperismo, della miseria nera’. Non solo i democristiani ma anche parte dei socialisti si opposero all’introduzione del salario minimo definito dalla legge in quanto, secondo Gronchi, si trattava di materia da demandare alla contrattazione collettiva di settore e non alla legge dello stato. Proseguendo lungo la visione fanfaniana, la Costituzione cercò di porre rimedio ai due ostacoli alla ‘tranquillità familiare’ (bassi salari e discontinuità del lavoro) introducendo all’articolo 36 il diritto al giusto salario, ossia una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestata e sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia una esistenza libera e dignitosa, e all’articolo 38 il diritto all’assistenza e previdenza sociale al fine di liberare il lavoratore dallo stato di incertezza psicologica per le interruzioni del lavoro dovute a cause come la malattia, l’invalidità, l’infortunio, la gravidanza per la donna. Se la base del diritto al lavoro è il diritto alla vita, ciascuno deve essere messo nelle condizioni di far fronte alle minime esigenze di vita, anche laddove si trovi in particolari situazioni di carenza economica. Il disagio del lavoratore, che intacca la sua capacità produttiva, non è correlato secondo Fanfani solamente all’insicurezza di un impiego stabile e alla scarsa retribuzione ma fonte di questo disagio morale, prima ancora che economico, è la sua crisi di identità. L’operaio è alienato nel suo lavoro in fabbrica, ridotto a strumento, oggetto della produzione, etero-diretto dal preposto che esercita un controllo su di lui. È costretto a lavorare per il sostentamento suo e della propria famiglia ma tale lavoro lede la sua dignità di uomo: un individuo alienato, un fattore del processo produttivo, non potrà mai espandersi in ‘persona’, ascendere da soggetto immanente a soggetto trascendente, uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio che cammina in terra ma con la sguardo rivolto verso il cielo. L’identità del lavoratore è debole ma la sua innata dignità non gli permette di essere un semplice strumento in mano all’imprenditore. Di qui due soluzioni radicalmente alternative: il classismo conflittuale delle sinistre e il personalismo comunitario e partecipativo dei cattolici. Secondo socialisti e comunisti, il diritto di organizzarsi nel sindacato e di scioperare, presupposto inderogabile della lotta di classe, era l’unico modo per migliorare le condizioni dei lavoratori. Fanfani si oppose al riconoscimento del sindacato e del diritto di sciopero in Costituzione, proponendo il silenzio del costituente e la più ampia discrezionalità del legislatore ordinario in questa materia. L’introduzione del diritto di sciopero nella Costituzione avrebbe significato, secondo il cattolico, un’ammissione di impotenza dello Stato, la sua insufficienza a dirimere altrimenti il conflitto e a perseguire fini di giustizia sociale. I democristiani furono isolati e le sinistre vinsero questa partita. L’opposizione di Fanfani era facilmente spiegabile alla luce della sua visione su come regolare il conflitto sociale, non ammettendo “il duello tra le parti” ma con un intervento alla radice, nell’organizzazione aziendale, grazie alla partecipazione dei lavoratori alla gestione e alla ripartizione degli utili dell’impresa. Se l’uomo possiede una sua dignità trascendente e non può essere oggetto dell’esercizio del potere altrui, deve potersi autodeterminare anche sul posto di lavoro.
Partecipazione
Secondo Fanfani, la cura dei mali del capitalismo e delle sue ingiustizie presenta una terapia congiunturale, temporanea nelle politiche macroeconomiche keynesiane di piena occupazione, ed una terapia finale, risolutiva rappresentata dalla partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa. Fanfani respingeva la definizione di ‘keynesiano’ in quanto egli “pensava ad una riforma strutturale del sistema economico, non solo all’aumento del tasso d’occupazione”. Le politiche anticicliche nelle congiunture economiche sfavorevoli, proposte da Keynes, costituivano per Fanfani un buon rimedio ma non definitivo perché la cura finale del capitalismo non poteva che passare dal ripensamento totale dei rapporti di produzione dentro l’impresa.
“Ecco che il progressivo inserimento di ogni uomo come cittadino nella vita politica, ha reso popolare il bisogno di progressivo inserimento di ogni uomo come lavoratore nella vita aziendale, realizzando così la più elementare forma di controllo sociale delle attività economica, senza eliminare l’iniziativa individuale.” Fanfani fu dunque l’ideatore dell’articolo 46 che riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende, lasciando ampia discrezionalità al legislatore ordinario sulle modalità e le forme di tale partecipazione. Come è noto l’articolo 46 non è mai stato attuato e lo stesso Fanfani sul finire degli anni ’70, avvertendo forse l’imminente cambio di paradigma in senso neoliberista, pubblicherà ‘Capitalismo, socialità, partecipazione’ per chiedere a gran voce l’attuazione legislativa del modello di partecipazione alla vita aziendale per cui si era così battuto trent’anni prima. Fanfani si pone dunque al di là di Keynes nella sua critica al capitalismo, non vuole solo temperarne gli effetti negativi con l’intervento redistributivo dello Stato, ma andare oltre il capitalismo senza valicare la barriera del socialismo. Il problema distributivo si risolve primariamente dentro l’impresa, con la partecipazione alla gestione per curare la crisi di identità del lavoratore dipendente, la ripartizione degli utili per integrare il salario insufficiente sino a rendere i lavoratori stessi compartecipi all’impresa produttiva e ampliare così la platea dei proprietari dei mezzi di produzione. Il lavoratore si trasforma così in imprenditore e l’imprenditore in lavoratore, per dirla con Giorgio La Pira (amico e compagno politico di Fanfani) “fino a pervenire ad una società senza classi, nella quale sia scomparsa la distinzione fra proprietari e non proprietari, fra lavoratori e sfruttatori, una società ordinata con l’obbligo di tutti alla proprietà e con l’obbligo di tutti al lavoro: abolizione del proletariato e del capitalismo insieme.”
Amintore Fanfani non fu dunque un uomo di partito, un capo politico, come fu invece e straordinariamente Aldo Moro, nonostante sia stato per ben due volte segretario nazionale della Democrazia Cristiana. Fanfani fu invece il più grande riformatore sociale della nostra storia repubblicana, come emerge chiaramente dal suo attivismo cattolico riformista in Assemblea Costituente e dalla sua azione nel governo, dapprima come Ministro del lavoro nei governi De Gasperi e poi da Presidente del Consiglio nei primi anni ’60. ‘Rieccolo’ lo appellò Indro Montanelli con ironia e una certa mal sopportazione, rimarcando che rimarcando che fu per ben sei volte chiamato a ricoprire l’incarico di Presidente del Consiglio. Magari tornasse il ‘Rieccolo’ rispondiamo invece noi, suoi posteri, tristemente orfani di uomini politici come Fanfani.
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