LE PORTE DEL POTERE POLITICO SI APRONO CON LE CHIAVI DELLA CULTURA

LE PORTE DEL POTERE POLITICO SI APRONO CON LE CHIAVI DELLA CULTURA

di Davide D’Intino

Sgombriamo subito il campo da possibili equivoci. Se stai cercando il prontuario del buon politico di professione, il libretto di istruzioni del perfetto carrierista o il compendio per l’attestato di conformità ideologica al pensiero unico politicamente “corretto”, sei avvertito: Coraggio! Manuale di guerriglia culturale ti deluderà. L’incendiario saggio di François Bousquet è sprovvisto dei suggerimenti a buon mercato di cui vanno a caccia gli aspiranti parvenu del sistema politico, esente da eserciziari di trasformismo e privo di sezioni antologiche contenenti i mantra indispensabili per pronunciare professione di fede neoliberale, così da maturare lo status di rispettabilità mediatica ed ottenere patente e libretto di circolazione intellettuale.                       

                                                                                    

In questa recente pubblicazione edita da Passaggio al Bosco e tradotta dal francese da Fabrizio Rinaldini, Bousquet restituisce all’agone politico il suo reale significato di campo delle contrapposte soggettività in lotta per l’esercizio egemonico del potere, ciascuna dotata di una peculiare Weltanschauung, una concezione del mondo che ne sostanzia l’ineludibile vocazione ad attribuire alla propria cornice narrativa il crisma dell’oggettività; benché in politica ci sia un divario incolmabile tra oggettività e presunzione di oggettività quale fonte di autolegittimazione.

Ora, nella misura in cui la dinamica politica si configura come una competizione scandita dai tentativi posti in essere dagli schieramenti in campo di autolegittimazione da un lato e delegittimazione dell’avversario dall’altro, uno schieramento che, venendosi a trovare in una condizione di subalternità rispetto al proprio antagonista, assumesse nei suoi confronti un atteggiamento di sudditanza psicologica tale da riconoscergli direttamente o indirettamente le facoltà di ergersi ad arbitro del gioco politico (e di stabilire i parametri della morale comune e di detenere il monopolio della memoria storica, consentendogli di servirsene per escluderlo surrettiziamente dalla competizione mediante la formula della conventio ad excludendum) non solo avrebbe le armi spuntate in partenza, ma sarebbe il principale artefice delle proprie sconfitte.                                                                                                                              

Destinatari del messaggio sono tutti gli “identitari” europei. Ai quali l’autore transalpino si rivolge impiegando la prima persona plurale, in un clima di confronto tra sodali arricchito dalla tagliente prefazione di Roberto Pecchioli. Bousquet individua l’ostacolo principale alla affermazione dello schieramento identitario nella sua proverbiale attitudine all’autocensura. Del resto, è incomprensibile come si possa immaginare di far valere le proprie idee senza proferire parola. Ridursi al silenzio, incappare nella spirale del mutismo significa alimentare le tecniche di ostracizzazione impiegate dalla controparte e legittimare la sua supposta, autoconferita superiorità morale. Beneficiando di una rendita di posizione nei circuiti informativi, fabbriche dell’opinione pubblica alle quali le masse uniformano i propri giudizi dietro il ricatto implicito dell’esclusione sociale, lo schieramento globalista altera, contraendola, la competitività dello schieramento identitario ricorrendo agli espedienti della invisibilizzazione, quando la situazione in essere gli consenta di non parlarne o di escluderlo dal dibattito pubblico; della inferiorizzazione, attribuendogli senza possibilità di replica etichette peggiorative; della demonizzazione, scagliandogli contro la consueta, consumata pletora di anatemi ed elevandolo ad archetipo del male, dispensandosi così dall’incombenza di confutarne le ragioni; e della patologizzazione, rendendolo bersaglio di metafore mediche invalidanti.

E lo schieramento identitario cosa fa, accetta l’etichetta, si rassegna ad essere sconfitto senza dire la sua, senza battersi? È l’errore peggiore in cui possa incorrere, ammonisce Bousquet. L’errore di deporre l’arma della cultura e le sue munizioni, le parole. Accettare che i propri avversari si arroghino la prerogativa di tracciare il perimetro della legittimità è un suicidio politico. Significa abdicare, rinunciare a fare politica e quindi, seguendo la definizione aristotelica di uomo come zoon politikon, rinunciare a vivere pienamente. Ad una egemonia subita non si risponde accettandone passivamente le implicazioni, appiattendosi progressivamente sulla sua narrazione o crogiolandosi nel ruolo di eterni proscritti, ma impegnandosi a costruire una controegemonia senza attendere che la classe dominante dia la sua autorizzazione a procedere e, magari, ammannisca pure la strada. Non si deve, non si può disertare, accogliendo la condizione di subalternità in cui ci si può venire a trovare in un dato frangente storico come se fosse una condizione ineluttabile. Alain de Benoist ce lo ha insegnato: «la storia è sempre aperta» e bisogna prendervi parte. Allora, asserisce Bousquet, alla «spirale del mutismo occorre contrapporre quella di prendere la parola in pubblico senza chiedere l’autorizzazione» – a chi, poi? -, perché, va chiarito una volta per tutte, «l’autorizzazione» bisogna prendersela «da soli». Ecco le due chiavi di volta della riflessione bousquetiana: la virtù del coraggio e il concetto di egemonia culturale.

Il coraggio di uscire dalla condizione di «esuli in patria», rivendicando l’assoluta legittimità di esercitare a pieno titolo le prerogative della cittadinanza politica. Il coraggio di emanciparsi dalla logica perdente e prosaica dell’entrismo, destinata ad irretire nel «sistema» i suoi adepti, portandoli «a segnare contro» il proprio «schieramento». Il coraggio di dissentire apertamente dal pensiero dominante, senza perifrasi, reticenze o camuffamenti. Ti stai chiedendo dove praticare il coraggio? È presto detto: nelle arene mediatica, intellettuale e politica. È a quelle latitudini, oggi, che sono collocati i campi di battaglia decisivi. L’autore descrive la virtù del coraggio, una virtù «indifferentemente maschile e femminile», come il presupposto dell’esercizio di tutte le altre virtù, il detonatore che una volta innescato consente di praticarle dando impulso ad un circolo virtuoso che andrà ad autoalimentarsi progressivamente, sino alla vittoria. La sua attivazione, tuttavia, presuppone a propria volta il superamento della logica utilitarista degli Hume e degli Smith, «della logica dell’interesse, dell’acquista-paga-getta» e la cicatrizzazione della frattura tra corpo individuale e corpo collettivo, in un’ottica comunitaria fondata sui princìpi della reciprocità e del dono e contro-dono.

Il concetto di egemonia culturale afferisce alla elaborazione teorica di Antonio Gramsci, e in particolare ai suoi ponderosi Quaderni del carcere, forieri di intuizioni imprescindibili per comprendere la funzione determinante svolta dalla azione sul piano culturale nell’influenzare le mentalità collettive e predisporre la direzione della dinamica politico-sociale. Un’egemonia politica duratura si fonda necessariamente su un’egemonia ideologica, in quanto nel lungo periodo il rispetto dell’ordinamento giuridico formalizzato dalla società politica si regge sul riconoscimento passivo delle sue norme da parte della società civile. Tale passività, tale assenza di obiezioni significative all’ordinamento nel suo complesso si ha quando l’ideologia di una minoranza organizzata, di un’avanguardia, arrivi ad informare lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, e ad esprimere il senso comune di un’epoca tanto da ottenere l’adesione acritica del corpo sociale alle deliberazioni del corpo politico. Le porte del potere politico si aprono con le chiavi della cultura, perché l’elettorato orienta le proprie scelte sulla base delle convinzioni acquisite in campo culturale, indipendentemente da quale sia il grado di consapevolezza e l’ambito in cui l’indirizzo dominante venga interiorizzato: scuola, lavoro, moda, sport, cinema, musica, teatro, sono tutti ambiti nei quali l’ideologia padroneggiata da una minoranza viene declinata sino ad universalizzarsi nella maggioranza.                          

Constatata l’incapacità delle griglie interpretative novecentesche di intercettare gli spartiacque della società contemporanea e spiegare le reali linee di convergenza e antagonismo che la caratterizzano, per Bousquet la condizione di subalternità dello schieramento identitario rispetto alle oligarchie globaliste, lo rende, indipendentemente dalla estrazione ideologica del sardo, il naturale destinatario della lezione metodologica gramsciana. Ma intendiamoci, l’appassionata esortazione di Bousquet disimpegna i fautori del piccolo cabotaggio politico e i fatalisti cronici. Essa impegna, invece, tutti coloro che «non vogliano soltanto cambiare l’equilibrio delle forze, bensì l’equilibro delle norme». La strada è tracciata: metapolitica, innanzitutto.

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