Trieste, speranza di libertà e di diritto al lavoro nell’era della crisi del sindacato

Trieste, speranza di libertà e di diritto al lavoro nell’era della crisi del sindacato

Di Stelio Fergola

Quanto avvenuto a Trieste in queste settimane, comunque la si veda, significa qualcosa. Addirittura di importante, considerando il livello di appiattimento generale che caratterizza il popolo italiano da troppi decenni.

Un appiattimento non genetico, come un’analisi poco scientifica ma molto autorazzista tende a ripetere e a ripeterci da tempo, bensì culturale e pedagogico. Nel “sonno” del popolo italiano confluiscono ragioni diverse, alcune nazionali, altre prettamente occidentali. I trami storici del XX secolo, la formazione apatriottica delle generazioni del dopoguerra, i retaggi – soprattutto cattolico tradizionalisti – pre-esistenti dai tempi dell’Unità tra le prime. Il contesto decadente dell’Ovest e del mondo capitalista, con le sue società traboccanti di benessere ma sempre più prive di spirito, di sacrificio e di propensione alla lotta tra le seconde. Il governo è vicino a prorogare lo stato di emergenza fino a marzo e il Green Pass addirittura fino all’estate. Quindi questa riflessione non si concentra sui risultati: è amaramente probabile che essi non arriveranno, nemmeno in questa occasione.

Ciò su cui voglio soffermarmi è una questione decisamente più improntata all’universalità, a ciò che Trieste può concretamente lasciare negli animi e nelle consapevolezze popolari. Consapevolezze spesso traviate da una propaganda ormai asfissiante totalmente distante dalla realtà dei fatti. Una realtà che Trieste ha permesso di esibire in tutta la sua drammaticità.

Perché le proteste a Nord Est fanno emergere tanti temi: oltre quelli della lotta, del diritto al lavoro, dell’unità degli italiani, della patria e della sua possibile riscoperta, anche quello – ormai pluridecennale – dell’assenza di tutele e di sostegno al mondo del lavoro.

Il Nord Est ha reso evidente ciò che in molti di noi pensavano già da tantissimo tempo, ovvero che i lavoratori non sono rappresentati. Hanno soltanto di fronte a loro uno specchietto per le allodole che si chiama CGIL, auto-proclamatasi punto di riferimento per tutti coloro che si svegliano la mattina per guadagnare lo stipendio, ma de facto poco più che una marionetta complice di regime.

Sulla crisi dei sindacati parla, oltre a una storia francamente discutibile e opinabile, anche i numeri impietosi degli ultimi anni: CGIL e CISL perdono iscritti costantemente. Tra il 2019 e il 2020 l’emorragia di chi non rinnova la tessera ha raggiunto il numero di 500mila lavoratori, di cui quasi 300mila appartenevano alla CGIL.

Ciò, abbinato a una indubbia crisi di consenso all’interno delle stesse strutture, estende la riflessione  a tutto il mondo sindacale: ma è evidente che il simbolismo generato dalla sigla CGIL sia molto più importante di tanti altri. Il sindacato è ormai tenuto in piedi, sostanzialmente, da chi non ha più interessi in gioco, ovvero i pensionati. Pochi i giovani iscritti, ed è impossibile non notare la discrasia creatasi quando, a metà ottobre, Maurizio Landini e compagnia hanno preferito concentrarsi più sul fantomatico ritorno del fascismo da abbattere che non a sostenere la protesta dei portuali di Trieste per il loro sacrosanto diritto a lavorare liberi da obblighi farmacologici.

A dire il vero, CGIL e compagni hanno deliberatamente osteggiato chi protesta. Addirittura hanno chiesto di “liberare il porto” nei primi giorni di occupazione precedenti allo sgombero. Non si sono mai fatti scrupoli, in compenso, a presenziare a importanti incontri con il presidente del Consiglio Mario Draghi, documentando il tutto anche con cordiali quadretti fotografici.

Non si sono fatti scrupoli a tentare miseramente di salvare le apparenze con la minaccia di sciopero sulla serissima questione “Quota 102”, salvo poi abbassare i toni, pur dichiarando ancora di “fare fronte comune” non si capisce bene per cosa.

Il tema della tutela del lavoro è ricco di spunti, in letteratura come nelle semplici disposizioni legislative. Che l’articolo 4 della Costituzione si trovi in una fase di estrema criticità non penso possa essere messo in discussione. Parimenti, non credo possa esserlo il concetto teorico della concertazione: in qualche modo, le parti hanno bisogno di incontrarsi e di addivenire a un accordo. Questo in generale. Ma per farlo c’è bisogno di una reale (o quanto meno decisamente maggiore) indipendenza dei sindacati e, in generale, ci sarebbe da rivalutare l’idea del funzionamento di un reale tribunale del lavoro. Si tratta di un discorso indubbiamente complesso, perché imprescindibile dalla situazione sistemica: quella attuale in cui versa la Nazione non consentirebbe mai di produrre istituzioni realmente vicine ai cittadini, ma solo enti di facciata, interessati soltanto ad eseguire e lasciar passare ciò che più interessa i gruppi di potere, le lobby bancarie e finanziarie.

O, nella migliore delle ipotesi, a prendersela con le piccole e medie imprese, cosa che soprattutto CGIL, ma talvolta anche CISL e UIL non hanno certo risparmiato di fare negli ultimi decenni. Strillare contro abbassamenti di stipendio dovuti a situazioni economiche estremamente complesse per datori di lavoro ipertassati da anni, ha dimostrato soltanto di favorire il fallimento di tante aziende, con l’unico risultato utile di lasciare in mezzo a una strada decine di migliaia di persone: l’esatto opposto, dunque, di una difesa dei lavoratori.

Non sempre un abbassamento di stipendio rappresenta la privazione di un diritto: in certi casi è una strategia di sopravvivenza ostativa di licenziamenti che sarebbero ben peggiori. Bisognerebbe fare attenzione a comprendere in quale delle due circostanze ci si trovi, caso per caso. Tuteliamo il lavoro e lo stipendio, ma cerchiamo di capire quando avere uno stipendio più basso sia meglio che non averne alcuno. Dovrebbe essere una banalità, ma a quanto pare spesso non lo è.

Da qui che si chiude tornando a Trieste. Perché la città in queste settimane ha espresso qualcosa. Ha ispirato proteste “gemelle” non solo nel resto d’Italia, ma in Slovenia, in Germania, in Francia, in Spagna e addirittura negli Stati Uniti. È stata una dimostrazione viva del fatto che, nel “sonno” degli italiani non c’è nulla di genetico. E che è sempre possibile un risveglio.

Che questo risveglio riguardi ogni cosa, spirito, materia e lavoro, e che possa condurre anche alla consapevolezza che, laddove si guardi in faccia Maurizio Landini, ci si renda conto di non avere di fronte certamente un alleato.

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