Tra Paese reale e Paese legale, fotografia di un’Italia incompresa

Tra Paese reale e Paese legale, fotografia di un’Italia incompresa

di Mario Bozzi Sentieri

Qual è, dietro l’unanimismo di facciata, il reale stato di salute dell’Italia? Quanto c’è di vero nell’ottimismo profuso generosamente dal mainstream? E come vivono gli italiani questa difficile fase di passaggio ?

Per trovare il bandolo della matassa ci aiutano i numeri: fotografia crudele, ma oggettiva, dell’Italia d’oggi, numeri spesso sottovalutati, sottaciuti, non portati all’attenzione generale, né fatti oggetto di doverosi dibattiti.

Partiamo dalla povertà. Con riferimento al 2020, secondo le stime definitive, diffuse dall’Istat,  risultano  oltre due milioni le famiglie in povertà assoluta (con un’incidenza pari al 7,7%), per un totale di oltre 5,6 milioni di individui (9,4%), in significativo aumento sul 2019 quando l’incidenza era pari, rispettivamente, al 6,4% e al 7,7%.

Sul fronte dell’occupazione,  rispetto al febbraio 2020 siamo ancora sotto di -314 mila occupati, addirittura di -412 mila rispetto a settembre del 2019. Torna ad aumentare la disoccupazione  giovanile, mentre l’inattività resta di oltre +200 mila unità maggiore rispetto al periodo pre-pandemico, mantenendo il primato assoluto in Europa. In sintesi, il tasso di occupazione resta cronicamente attorno al 58% e quello di disoccupazione sopra al 9%. Con questi andamenti, difficilmente si raggiungerebbero le previsioni sul lavoro indicati nella NADEF mentre si accentuerebbe ancor di più il processo di precarizzazione del mercato del lavoro italiano.

A guardare poi i salari  – secondo il recente report della Fondazione Di Vittorio –  cinque milioni di italiani guadagnano meno di 10 mila euro lordi all’anno. E un milione 800 mila, dei 2,7 milioni part-time, ha dovuto accettare l’orario ridotto contro la sua volontà.

Il gap tra gli stipendi italiani e il resto d’Europa cresce: prima della pandemia (quando l’aumento dei salari era stato del 3,1% in vent’anni, contro impennate a dure cifre in Francia e Germania) e anche dopo, con una riduzione della massa salariale del 7,2% (ridotta al 3,9% grazie al sostegno degli ammortizzatori sociali) nettamente più pesante del 2,4% della media europea e dello 0,7% tedesco. Il lavoro è povero anche perché poco specializzato: nelle due fasce di attività meno qualificate si trova il 34% degli italiani (la media europea è del 27%) e nelle due più alte appena il 15,5% (larghissimo il gap con il 25% dell’area dell’euro).

Nel 2020 il salario medio di un dipendente a tempo pieno in Italia è diminuito del 5,8% rispetto al 2019, con una perdita in termini assoluti di 1.724 euro. È il calo più ampio nell’Ue (-1,2% in media). Il salario medio annuo, nonostante il salvagente degli ammortizzatori sociali, è sceso di 726 euro (-2,4%) a 27.900.

Fin qui il triste rosario dei numeri, che rendono   evidente non solo le condizioni  di vita di larghe porzioni della popolazione nazionale, quanto anche  la spaccatura tra establishment e ceti popolari, tra Paese legale e Paese reale. Anche per questo l’illusione della grande ripresa post pandemica non sembra  convincere l’opinione pubblica.

Secondo un recente sondaggio,  elaborato da Alessandra Ghisleri,  direttrice di Eurmedia Research, e pubblicato su  “La Stampa”, prendendo in considerazione il livello economico delle famiglie, il 51,0% della popolazione dichiara di essere allo stesso livello pre-pandemico, mentre il 40,7% si sente più povero rispetto alla fine del 2019.

A parte un 2,3% che si dichiara “fortunatamente” più ricco, cresce nell’arco di quasi un mese del 4,1% il pessimismo dell’indice di fiducia nel futuro economico, finanziario e lavorativo delle famiglie.

I più preoccupati tra coloro che si ritrovano ad avere un saldo negativo tra entrate e uscite (39,9%) sono stati rilevati nelle aree del centro-sud del nostro Paese e nella fascia tra i 25 e i 64 anni.
In tutto questo il 79,3% degli intervistati segnala di aver verificato in prima persona un aumento del costo della vita. Per un cittadino su due (il 62,3% del 79,3% che ha segnalato un aumento dei prezzi) l’aumento dei prezzi riguarda tutti i prodotti in generale, mentre per un cittadino su quattro (il 31,5% del 79,3% di coloro che hanno indicato un aumento dei prezzi) l’incremento riguarda principalmente carburanti ed energia.

Che cosa ci dicono queste tendenze dell’opinione pubblica nazionale? Intanto che dietro l’ottimismo di facciata si agita un’inquietudine diffusa a cui è urgente dare risposte organiche (in sintesi: dalle tutele del lavoro alle politiche per la famiglia, dalla formazione al rispetto degli obblighi scolastici, dalle politiche abitative alla sanità).

L’Italia del Pnrr, della modernizzazione 4.0, della sostenibilità ambientale deve imparare a fare i conti con i ritardi e le frustrazioni di larghi settori della popolazione.  Anche perché tanto più i processi di trasformazione verranno accelerati tanto più le differenze sociali – così com’ è tipico delle fasi di passaggio –  si accentueranno. Prenderne atto significa rompere finalmente con il conformismo dominante, ridando voce  al Paese reale, alle sue domande, alla rappresentazione (e risoluzione) dei suoi problemi. Con la retorica – ci si passi la battuta – non si riempiono le pentole ed ancor meno ci si dimostra all’altezza delle sfide di oggi e di domani.

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