di Mario Bozzi Sentieri
Più che uno scritto, poté una scritta, “Fuori la precarietà dalle nostre vite”, letta, la città conta poco, sui muri di un’Università. Nella sintesi graffitara c’è il senso di un disagio diffuso, giovanile, ma non solo, che pare essere un dato permanente della società moderna. Di esso sono zeppe le cronache quotidiane, i mass-media, i social. Ha una sua intima cronicità, metabolizzata dalla dimensione di massa del fenomeno e da una stanchezza collettiva, che spesso arriva a forme radicali di estraniazione. Come il giapponese hikikomori, quello “stare in disparte” che appare più un rifiuto alla crescita personale che un’espressione di critica sociale, un negare ogni futuro, nel segno di una precarietà cronica.
Di questa “malattia” percepire il dato sociale significa fermarsi al livello immediato, quello più evidente, clamoroso anche in termini statistici, di impatto sulla realtà sociale e dunque di lettura immediata.
E’ più facile, vista la sua percezione diretta, parlare di “precarietà” in rapporto al mondo dell’occupazione. In questo ambito la precarietà è sintesi di statistiche. E’ testimonianza drammatica. E’ incertezza fatta numero. E’ ansia per il futuro e magro presente.
Impossibile non esserne partecipi. Partiamo allora da qui, non certo per assecondare una visione “minimalista” del precariato sociale, quanto piuttosto per fissarne gli elementi essenziali. Per definire un’area concettualmente circoscritta, ma già nella consapevolezza che la questione debba essere allargata. Per cogliere la grandiosità di un fenomeno che tocca il mondo del lavoro, ma va ben oltre esso.
Che cosa si intende per “precariato”? Il termine fissa l’insieme dei lavoratori che vivono una generale condizione lavorativa di incertezza. Che cosa determina questa “incertezza”? In linea generale la mancanza di un lavoro a tempo indeterminato ed un reddito in grado di garantire l’autosufficienza. Con quale conseguenza? Quella di non potere immaginare e pianificare la propria vita futura. Fino al punto di arrivare a non cercare un’occupazione.
Fotografata la realtà del precariato sociale, poniamo nuovamente i quesiti iniziali cercando di allargare la prospettiva delle nostre analisi. Che cosa si intende per “precariato” etico? L’incertezza esistenziale determinata dall’assenza di principi motivazionali. Che cosa determina questa “incertezza”? La convinzione che tali principi siano inutili, se non dannosi, essendo un limite alla libertà personale. Con quali conseguenze? Che, a forza di negare i principi motivazionali, alla fine si favorisce la costruzione di una società precarizzata.
Esiste perciò un rapporto tra precarietà sociale e precarietà etica? Chi ha una visione chiusa all’interno di un certo determinismo economico-sociale esclude tale rapporto.
Secondo Guy Standing, autore di “Diventare cittadini. Un manifesto del precariato “Il precariato può essere definito attraverso tre criteri principali: le specifiche relazioni di produzione, di distribuzione e di relazione con lo stato. Con relazioni di produzione intendo dire che i precari sono stati abituati ad accettare una vita lavorativa instabile, al di fuori del tempo di lavoro convenzionale, etc. Le relazioni di distribuzione significano invece che i precari devono fare affidamento quasi esclusivamente sul salario, sulla paga in denaro, e che sono privi di ogni beneficio che non sia salariale, come le vacanze e le malattie retribuite, le pensioni contributive, etc. Questo significa che devono cercare di ottenere benefici statali fondati non sui diritti, ma sul superamento di test specifici. Le relazioni con lo stato rappresentano un aspetto ulteriore, e molto preoccupante: i membri del precariato stanno perdendo i diritti di cittadinanza e vengono progressivamente ridotti allo status di supplicanti. Per me, è questa la caratteristica essenziale di chi fa parte del precariato. Vuol dire che non hai diritto a ricevere nulla, devi supplicare, e sperare che la supplica venga esaudita. Si rischia di diventare mendicanti per ogni cosa, in ogni aspetto della vita, con gli amici, con i parenti, e infine con lo stato”.
L’1% più ricco del mondo ha una ricchezza all’incirca pari al 43% di tutte le attività finanziarie globali. In Occidente i redditi dei “supermanager” corrono, i salari crollano, la povertà è in aumento: fatti documentati e ben conosciuti, ma come e perché si è arrivati a queste disuguaglianze record?
Per Maurizio Franzini e Mario Pianta, autori di Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle le cause fondamentali sono quattro: il maggior potere del capitale sul lavoro, con profitti e rendite finanziarie che schiacciano i salari; l’emergere di un ‘capitalismo oligarchico’, con un ruolo chiave di pochi super-ricchi e della trasmissione ereditaria della ricchezza; l’individualizzazione delle condizioni economiche, che accresce le disparità tra lavoratori qualificati e non, stabili e precari, uomini e donne, cittadini e immigrati; infine, la principale, ovvero la ritirata della politica, che ha lasciato fare al mercato e rinunciato a ridistribuire reddito e ricchezza.
Se la precarietà è tutta interna ai meccanismi produttivi del sistema capitalistico (la mitica “dinamica del saggio di profitto”), conta poco e quindi non interessa evidenziare i “costi sociali” della precarietà etica.
Dei rischi a cui viene esposto dall’espandersi del relativismo, il cittadino non è allertato. Non ci sono cartelli indicatori che lo avvisino. Non ci sono campagne informative che lo mettano sull’avviso. Al contrario, egli è quotidianamente sottoposto ad una costante opera di indottrinamento inconsapevole, in grado di rendere dolce il processo di depotenziamento collettivo, di resa, di assuefazione. E tutto questo senza che le conseguenze concrete di tale deriva siano ben chiare a chi le farà. Senza che i costi sociali e personali siano chiaramente indicati.
Accade così che, riempito il ricco carrello del relativismo, l’ignaro cittadino arrivi alla cassa senza sapere il prezzo da pagare, convinto anzi che tutto gli è dovuto gratuitamente.
Il risultato è che le conseguenze di tali scelte ricadono sul malcapitato, al punto da stravolgere la sua vita e quella di chi gli sta intorno. Proviamo a moltiplicare queste conseguenze per milioni di volte ed avremo il quadro della società moderna, scricchiolante e sempre più instabile, di famiglie segnate da una crisi che diventa economica in quanto è crisi etica e non viceversa, di singoli gettati ai margini della società, senza più riferimenti esistenziali ancor prima che materiali.
A pagarne le conseguenze sono e saranno sempre di più i “ceti deboli”, deboli non solo dal punto di vista economico ma anche dal punto di vista esistenziale. Deboli perché spesso incapaci di gestire le emergenze esistenziali, le lacerazioni familiari, la rottura dei vecchi legami, di fronte ad una vita così diversa, drammaticamente diversa e lontana rispetto al gossip patinato, alle cronachette rosa in cui divorzi, tradimenti ed abbandoni diventano accattivanti status symbol.
Ed è sulla sottile linea di demarcazione che separa amore e rancore che la cronaca quotidiana da rosa si trasforma in nera, proprio là dove la libertà “allargata” aveva fatto presagire ulteriori e definitive “liberazioni”. Arrivando così a “confondere” e fondere precarietà sociale e precarietà etica, con i drammatici risultati bene evidenti a chi sappia coglierli simultaneamente.
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