Per le “Città del  Dopodomani”. LA RIVOLTA DELL’ARCHITETTURA

Per le “Città del Dopodomani”. LA RIVOLTA DELL’ARCHITETTURA

di Mario Bozzi Sentieri

“L’essere storico è un essere urbano” – ha scritto  Oswald Spengler in Il tramonto dell’Occidente (1918-1923), offrendoci il senso immediato e sintetico del secolare rapporto fra città e società, fra idealità e disgregazione culturale, al punto da arrivare  a rappresentare la città  – parole sempre di Spengler – non più come un destino ma solo come  casualità, non più una direzione vivente ma solo un’estensione spaziale. E’ il senso-non senso degli aggregati moderni, in cui – per dirla con Hans Sedlmayr (La rivoluzione dell’arte moderna, 1960) – “la relazione dell’edificio con la totalità dell’uomo è abolita”. Vince l’edilizia, la tecnica, l’ingegneria. E a perderne sono soprattutto i suoi abitanti, nella misura in cui – come ebbe a scrivere Alexis Carrel (L’uomo, questo sconosciuto, 1935) – “la città moderna è costituita da abitazioni mostruose e da vie oscure, piene d’aria viziata dal fumo, dalla polvere, dai vapori della benzina e dei prodotti della sua combustione, rintronate dal rumore dei tram e degli autocarri e continuamente ingombra di folla”.

Bastano queste tre citazioni, espressione di una cultura tradizionale, per riconsegnarci il senso “problematico” della crescita delle nostre città e la lettura non convenzionale della crisi dell’urbanesimo contemporaneo e della conseguente necessità di individuare possibili via d’uscita. La sfida non è facile. E’ culturale ed insieme politica, in ragione della necessità di prefigurare (e realizzare) un nuovo interventismo urbanistico critico e ricostruttivo insieme.

E’ il senso del progetto “Città del Dopodomani” ideato dai deputati Alessandro Amorese e Andrea Volpi,  presentato, qualche giorno fa,  presso la  Sala Conferenze Stampa della Camera,  assieme al sindaco de L’Aquila Pierluigi Biondi, responsabile di Fratelli d’Italia per le Autonomie Locali,  al fine di riannodare “da destra” una riflessione sulle nostre città, abbattendo  il vecchio concetto di periferia fatto solo di palazzoni, impostato ab origine e raccontato come un luogo degradato nelle strutture e nel sociale, salvando  i tanti Comuni condannati allo spopolamento e all’estinzione, tutelando  i centri storici e le singole specificità ed identità. “L’Italia – dichiarano gli ideatori del progetto “Città del Dopodomani” a dispetto della sua grande tradizione, è stata incredibilmente troppo passiva ed assente nel dibattito europeo sull’idea contemporanea di architettura e visione, sull’asetticità dei nuovi quartieri o sul loro ripensamento che li depura dei propri tratti naturali. La cosiddetta ‘bruttificazione’ di alcuni centri urbani nord europei rischia di contagiare impostazioni di piani urbanistici e progetti in città italiane, più o meno grandi, già attraversate da quartieri che non tendono certamente al ‘bello’; sarà invece fondamentale avere una linea sulla riqualificazione ed il recupero delle migliaia di edifici abbandonati ed in disuso in Italia (caserme, colonie marine e montane e molto altro)”.

Amorese, capogruppo di FdI in Commissione Cultura e responsabile per le iniziative editoriali, è andato oltre augurandosi che anche in Italia possa prendere piede il Movimento di “Archtectural uprising(Rivolta architettonica) , un movimento conservatore che nel Nord Europa sta rappresentando un baluardo contro l’architettura ultramoderna e asettica. “Bisogna intervenire al più presto – ha affermato Amorese – perché i centri delle città sempre più costosi sono abbandonati non solo dalle classi meno abbienti ma anche dalla classe media. Occorre invece dare risposte partendo da una nuova visione urbanistica che consideri seriamente le istanze dei cittadini. E dia una prospettiva ottimistica a chi crede nella rinascita contrastando ogni tentativo di gentrificazione e recuperando anche le periferie. Bisogna tornare alla bellezza e alle tradizioni, ripensando anche alla gestione del trasporto pubblico e utilizzando l’intelligenza artificiale per il recupero di edifici abbandonati”.

Secondo il Movimento di “Archtectural uprising” fondato in Svezia nel 2014 come gruppo pubblico su Facebook e poi diventato  un’organizzazione non governativa (con ramificazioni in Norvegia, Danimarca e Finlandia, ma anche Germania, Paesi Bassi e Regno Unito, tra gli altri) costruttori, architetti ed enti governativi “ignorano palesemente” quello che vuole la gente: alcuni studi citati sul suo sito, più di tre quarti della popolazione preferirebbe edifici di architettura tradizionale che siano in armonia con il paesaggio circostante, rispetto a quelli ultramoderni, che spesso comportano costi molto elevati e “imbruttiscono” le città. Per usare le parole che si leggono sul sito del movimento: “edifici che sembrino edifici, e non giganti scatole di scarpe, giocattoli o errori”.

Nessun anacronismo però: secondo il movimento ci sarebbero infatti “possibilità infinite di sviluppare nuovi stili”, che siano al tempo stesso innovativi e allineati alla tradizione locale.  Più armonia e una “bellezza senza tempo” insomma, e più senso dell’appartenenza ai territori (alle loro storie, alla loro architetture, alle loro tradizioni) per ridare vivibilità alle città.

In sintesi, per tornare agli autori citati in premessa: le città come destino (Spengler), la relazione dell’edificio  con la totalità dell’uomo (Sedlmayr), la ricerca del bene degli abitanti (Carrel).

Dicono – del resto – gli animatori di “La Città del Dopodomani”: “ Per troppo tempo abbiamo inseguito validi modelli del passato, ma è giunta l’ora di immaginare il futuro partendo da una nuova visione urbanistica che consideri seriamente le istanze di tutti i beneficiari e restituisca una prospettiva proficua ed ottimistica a chi crede nella rinascita degli uomini nelle Città”.

Non è che l’inizio, ma è certamente un’importante prospettiva di lavoro, in grado di coinvolgere quanti vivono quotidianamente, sulla propria pelle, la crescita disorganica e caotica del tessuto urbano, attivando – nel contempo – i doverosi approfondimenti con urbanisti, architetti, docenti, sindaci, assessori all’urbanistica ma anche esponenti del mondo della cultura e del giornalismo.     Tra le città-museo e le metropoli-necropoli c’è spazio per una “terza via”, in grado di sanare decenni di cattiva urbanizzazione e di noncuranza della qualità della vita degli abitanti delle città. Una nuova identità urbana è possibile. Basta volerla.

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