di Sandro Righini
Una bella notizia è giunta in questi giorni sul fronte della ricerca italiana nel campo della genetica agraria. È stata inoltrata la prima domanda di autorizzazione per la sperimentazione in campo di una varietà di riso resistente ad una malattia, comunemente denominata Brusone, causata dal fungo patogeno Pyricularia oryzae. Il gruppo di ricerca dell’Università di Miliano che ha lavorato a questo progetto, guidato dalla ricercatrice Vittoria Brambilla, adesso dovrà aspettare la valutazione dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), il quale dopo una consultazione pubblica, che durerà circa un mese, esprimerà il suo parere.
In laboratorio, grazie all’utilizzo del sistema CRISPR/Cas9, i ricercatori dell’Università milanese sono riusciti ad effettuare tre delezioni nelle sequenze codificanti di tre geni che influenzano la suscettibilità del riso al fungo responsabile del Brusone, ottenendo buoni risultati. Adesso si tratta di effettuare le prove in campo aperto, il quale è stato già individuato in un’azienda agricola sita in provincia di Pavia, disponibile a offrire una porzione di terreno pari a 28 m² all’interno di un appezzamento di 400 m², questo per evitare rischi di impollinazione incrociata.
Un passo in avanti per la nostra ricerca. Un risultato di cui dobbiamo rallegrarci, tanto più che nel nostro “Tradizione Ecologica. L’agroalimentare italiano e la sfida della sostenibilità” spingevamo fortemente per l’implementazione della ricerca genetica in campo agrario. Certo, da solo questo non basta, visto quello che ci ha ricordato il Dott. Alberto Guidorzi nel n.4 della rivista Partecipazione, ovvero che ci sarebbe da fare un grandissimo lavoro a monte e che le Tecnologie di Evoluzione Assistita (TEA) non sono che la valle di un più complesso sistema di ricerca e commercializzazione che in Italia abbiamo quasi del tutto dilapidato. Ma comunque un segnale positivo, di cui va dato il giusto merito al governo in carica, che si è prodigato fin da subito per smuovere acque stagnanti da troppo tempo, varando questo regime di autorizzazione temporanea, in vigore fino al 31 dicembre 2024, in attesa che l’Unione Europea effettui la revisione del piano normativo sulle piante geneticamente modificate.
Tutti felici e contenti, dunque. Eppure, c’è una nota stonata in questo coro giubilante di voci: quella di Coldiretti.
Vero che l’associazione agricola giallo-verde si è spesa molto per queste nuove TEA, stipulando accordi con la stessa Società Italiana di Genetica Agraria e facendo una buona propaganda in questi ultimi anni. Ma se fino a qui è stato impossibile anche soltanto testare in campo i risultati dei nostri laboratori di ricerca universitari, ciò lo dobbiamo soprattutto a Coldiretti e alle sue passate “battaglie” contro l’introduzione dei comunemente noti OGM, le quali, con il contributo determinante dei politici (leggi Pecoraro-Scanio e Alemanno), hanno generato a catena la pastoia burocratica che oggi tanto viene deprecata.
Recentemente, dal palco di “Atreju”, la festa nazionale di partito di Fratelli d’Italia, il Presidente nazionale di Coldiretti, Ettore Prandini, ha dichiarato: << se noi avessimo introdotto gli organismi geneticamente modificati oggi non parleremmo più di distintività; non parleremmo più di biodiversità; non parleremmo più di un’agricoltura italiana e anche di tutta la filiera agroalimentare che il mondo ci invidia >>.
Peccato che le più importanti branche della filiera agroalimentare italiana si reggano proprio sulle importazioni di mais e soia transgenici, in larga parte provenienti d’oltreoceano (Brasile, USA, Argentina).
Nel 2022 la produzione di mais nazionale copriva appena il 41% del fabbisogno interno e la soia solo il 30%. Mais e soia sono la base alimentare dei nostri importanti allevamenti zootecnici (bovini, suini, avicoli), dai quali otteniamo la materia prima (latte e carne) che poi, grazie alla nostra maestria di trasformatori, riusciamo a far apprezzare nel mondo per qualità e distintività (i 4 campioni dell’agroalimentare italiano sono Grana Padano, Parmigiano Reggiano, Prosciutto di Parma e Prosciutto di San Daniele).
Perché il Presidente Prandini non va a dire certe cose ai maiscoltori della Pianura Padana, i quali nei primi anni 2000 garantivano l’autosufficienza interna con i loro raccolti, mentre oggi hanno dimezzato le produzioni e gli ettari coltivati a mais? Avete mai provato a controllare come le nostre rese ad ettaro sono oramai stagnati da circa 30 anni rispetto a chi ha deciso d’investire nel mais transgenico e su agrotecniche sempre più avanzate?
Perché invece di sbraitare contro multinazionali e poteri forti, non racconta che all’interno della rete vendita dei Consorzi Agrari, organismo commerciale “cooperativo” i cui consigli di amministrazione sono a maggioranza controllati da soci di Coldiretti, si vendono sementi e agrofarmaci di quelle stesse multinazionali tanto deprecate durante i comizi? Oppure pensate che il mais e la soia seminati dai nostri agricoltori siano autoprodotti in azienda o frutto di qualche piccola ditta sementiera italiana?
Perché non racconta che sempre grazie alla rete di silos di stoccaggio dei Consorzi Agrari, si gestiscono partite di mais e soia transgenici importati dai grandi paesi produttori, le quali non solo costano meno, ma hanno maggiori requisiti di salubrità rispetto alle partite nazionali, falcidiate dalle micotossine? Tutto ciò permette di fare buoni affari con i mangimifici o forse credete che ci si possa sostenere soltanto coi mercatini di Campagna Amica?
Un gran bel modo di salvare e promuovere la distintività e la qualità dell’agricoltura italiana e “di tutta la filiera agroalimentare che il mondo ci invidia”.
Troppe incongruenze, troppe bugie, che non fanno bene a nessuno e, come ammoniva un classico della nostra letteratura, o hanno le gambe corte e si scoprono subito o hanno il naso lungo e col tempo divengono sempre più ingombranti.
A Viterbo, durante le proteste che in questi giorni stanno animando il mondo agricolo, è stata data alle fiamme una bandiera di Coldiretti. Segnale di un malcontento forte e sempre più evidente fra gli agricoltori verso le rappresentanze agricole, di cui Coldiretti è la più esposta e conosciuta a livello mediatico.
Forse è l’ora di mettere i puntini sulle i, invece di continuare a barcamenarsi con strette di mano e sorrisi di convenienza, pur di esser accondiscendenti. Forse è il momento di dare un lieve colpo di spillo a quel palloncino giallo-verde che vediamo in mano a famiglie e bambini durante le fiere e le manifestazioni agricole, simbolo perfetto della vacuità e della leggerezza di una rappresentanza che attrae il pubblico, ma non convince più gli agricoltori.
Forse è giunta l’ora di lavorare davvero sui contenuti e ripartire dal basso. Coi piedi per terra.
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