di Mario Bozzi Sentieri
La precarietà ha tante facce. Emersa in un primo tempo soprattutto nel mondo del lavoro, essa si è poi diffusa sempre più nell’intero sistema sociale, fino a diventarne una caratteristica strutturale. Secondo il gruppo di ricerca internazionale sulla Precarietà e l’Incertezza Sociale, promotore, in collaborazione con l’ EURISPES, della Conferenza Internazionale sul tema “La Routinizzazione della modalità di crisi nelle nostre società. Nuovi Elementi di una Nuova Precarietà strutturale e diffusa” i processi di precarizzazione toccano infatti le condizioni del lavoro; i nuovi meccanismi di funzionamento dell’economia e gli effetti negativi dell’economia del debito; i limiti delle politiche sociali di fronte all’esigenza di correggere le disuguaglianze, promuovere la coesione sociale, perseguire la sostenibilità dello sviluppo; il ruolo correttivo dei servizi locali; la formazione di una vera e propria nuova classe sociale definita “Il Precariato”; la precarietà delle classi dirigenti; la precarietà che investe il mondo della scuola e della formazione.
C’è però anche una precarietà antropologica, non sufficientemente tenuta in evidenza e legata al venire meno dei richiami identitari, la quale, a differenza di quanto dicono certi “soloni” del relativismo etico, non fa male solo alle coscienze ma – ci si passi l’espressione tranchant – anche ai portafogli individuali, ai bilanci familiari e alla tenuta sociale.
Se la precarietà è tutta interna ai meccanismi produttivi del sistema capitalistico (la mitica “dinamica del saggio di profitto”), ci sono infatti dei “costi sociali” della precarietà etica, che vanno tenuti ben presenti, nella misura in cui è anche la precarietà etica che crea quella sociale e non necessariamente viceversa.
Pensiamo al venire meno dei tradizionali vincoli familiari. In Italia – secondo gli ultimi dati dell’Istat – si registra un ritorno ai livelli pre-Covid per le separazioni (97.913, +22,5% rispetto al 2020) e i divorzi (83.192, +24,8%): in media 267 richieste di separazione al giorno, ovvero una ogni 10 minuti. Sei divorzi su dieci riguardano coppie con bambini, letteralmente strattonati tra un padre ed una madre che litigano su tutto: i fine settimana e le feste comandate, i soldi e la casa, le vacanze e le scelte che riguardano i figli. Volano i piatti e purtroppo non solo quelli. Aumentano i delitti “passionali”, che si pensavano figli di un’Italia arretrata ed arcaica. Aumentano i suicidi, segno dell’incertezza esistenziale e del vuoto emotivo, provocato dalla fine di un rapporto, che si reputava esclusivo e duraturo.
”Nelle coppie”, ha spiegato Gian Ettore Gassani, presidente dell’Associazione avvocati matrimonialisti italiani, che sul tema ha scritto un libro, I perplessi sposi, “l’80% degli omicidi avviene nelle fasi in cui la relazione sta finendo o quando è appena finita. Nell’85% dei casi, l’omicida è l’uomo, sia perché di solito sono le donne a lasciare sia perché per l’uomo è più difficile accettare di essere lasciato”.
Divorziarsi costa moltissimo (secondo i tariffari base le spese per una separazione oscillano da un minimo di 1.000 Euro a un massimo di 10.000) . Ancora più traumatica è la fase seguente, come ci indicano le cronache. Masse di padri sbandati, senza casa e con un reddito più che dimezzato a causa degli alimenti, che vagano tra mense dei poveri, ostelli di mendicità, auto trasformate in estremi rifugi, cartoni che si fanno giacigli. Si calcola che siano ottocentomila i padri separati che vivono in condizioni precarie e circa duecentocinquanta mila quelli che vivono con appena trecento euro al mese.
Insieme alla messa in crisi della famiglia fa riscontro la crisi demografica (con il sistematico attacco al valore della vita), la diffusione, a livello di giovanissimi, di sostanze stupefacenti, la violenza fine a se stessa, lo sfarinarsi dell’ordine naturale.
“Precarizzare” l’etica, con ciò che comporta per le sue ricadute sull’esistenza del singolo individuo, delle famiglie, della società, appare un diritto da allargare, un impegno quotidiano per il quale non debbono essere posti nuovi limiti e debbono essere rimossi i vecchi. Non ci sono dunque cinture di sicurezza o caschi, né particolari avvisi per chi voglia fare del relativismo etico una sorta di laboratorio permanente delle proprie spericolatezze, laddove invece, in altri contesti, cinture, caschi, avvisi particolari sono posti a tutela della salute dei singoli e della collettività.
Dei rischi a cui viene esposto dall’espandersi del relativismo, il cittadino non è allertato. Non ci sono cartelli indicatori che lo avvisino. Non ci sono campagne informative che lo sollecitino. Al contrario, egli è quotidianamente sottoposto ad una costante opera di indottrinamento inconsapevole, in grado di rendere dolce il processo di depotenziamento collettivo, di resa, di assuefazione. E tutto questo senza che le conseguenze concrete di tale deriva siano ben chiare a chi le farà. Senza che i costi sociali e personali siano chiaramente indicati.
Accade così che, riempito il ricco carrello del relativismo, l’ignaro cittadino arrivi alla cassa senza sapere il prezzo da pagare, convinto anzi che tutto gli è dovuto gratuitamente.
Il risultato è che le conseguenze di tali scelte ricadono sul malcapitato, al punto da stravolgere la sua vita e quella di chi gli sta intorno. Proviamo a moltiplicare queste conseguenze per milioni di volte ed avremo il quadro di una società scricchiolante e sempre più instabile, di famiglie segnate da una crisi che diventa economica in quanto è crisi etica, di singoli gettati ai margini della società, senza più riferimenti esistenziali ancor prima che materiali.
A pagarne le conseguenze sono e saranno sempre di più i “ceti deboli”, deboli non solo dal punto di vista economico ma anche dal punto di vista esistenziale. Deboli perché spesso incapaci di gestire le emergenze esistenziali, le lacerazioni familiari, la rottura dei vecchi legami, i costi materiali, di fronte ad una vita così diversa, drammaticamente diversa e lontana rispetto al gossip patinato, alle cronachette rosa in cui divorzi, tradimenti ed abbandoni diventano accattivanti status symbol, mentre è sulla sottile linea di demarcazione che separa amore e rancore che la cronaca quotidiana da rosa si trasforma in nera, proprio là dove la libertà “allargata” aveva fatto presagire ulteriori e definitive “liberazioni”.
A pagarne le conseguenze non solo i singoli, ma un po’ tutto il sistema sociale. Con i bambini ed i giovani in prima fila, vittime di una precarietà di massa dai costi altissimi.
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