di Diego Benedetto Panetta
Riformare le strutture sociali presuppone un lavorio di natura interiore che faccia appello alla razionalità profonda dell’essere umano (filosofia) e che sappia non disprezzare lo sbocco ultimo a cui l’esercizio dell’intelligenza conduce: ovvero a quello di un «ordine» esistente ab extra ed ab intra l’essere umano.
«Mosso dalla convinzione profonda che alla Chiesa compete non solo il diritto, ma ancora il dovere di pronunziare una parola autorevole sulle questione sociali, Leone XIII diresse al mondo il suo messaggio». In occasione della Pentecoste del 1941, un radiomessaggio ancor oggi misconosciuto e sin troppo ignorato, trapela dalle stanze vaticane. Al soglio pontificio siede da due anni Pio XII. Nel clima festante e speranzoso che attornia l’entrata in guerra dell’Italia, Papa Pacelli raccoglie le sue energie e riafferma il dovere della Chiesa di «giudicare se le basi di un dato ordinamento sociale siano in accordo con l’ordine immutabile, che Dio creatore e redentore ha manifestato per mezzo del diritto naturale e della rivelazione». Il Papa si avvia ad articolare la sua riflessione in occasione di un anniversario molto importante.
Cinquant’anni prima, infatti, Papa Leone XIII (1810-1903) aveva scritto uno dei documenti magisteriali più noti e, al contempo, più sottovalutati di sempre: l’enciclica Rerum Novarum, considerata la Magna Charta della dottrina sociale della Chiesa. In essa si dispiega limpidamente, attraverso il tono mansueto del pastore e l’inossidabilità scultorea del Vicario di Cristo, non solo l’insegnamento evangelico della Rivelazione, ma la voce dell’ordine e del diritto naturale promosso dai classici (Socrate, Platone, Aristotele).
Le mosse da cui prende avvio la riflessione economico-sociale della Chiesa, in particolare nel Magistero di Pio XII, è quella inerente la nozione di «ordine» dianzi richiamata. Papa Pacelli spessissimo fa riferimento ad un termine preciso, introdotto da Sant’Agostino nel De Civitate Dei. Il Santo d’Ippona scrive che la pace nasce dalla «tranquillità dell’ordine» (19:13). Laddove l’ordine è da intendersi tomisticamente come la corretta disposizione delle cose secondo il proprio fine, naturale e soprannaturale.
La civitas umana sarà quindi in grado di affrontare efficacemente i problemi che si troverà dinanzi se riuscirà a trarre, da un esatto inquadramento delle problematiche sociali – condotto alla luce della filosofia e della teologia – le risposte adatte a fronteggiare le sfide che la modernità politica impone.
Le direttrici fondanti che il Magistero espone possono considerarsi le seguenti:
Riaffermazione della naturalità della comunità politica, ben descritta da Aristotele nella sua Politica, attraverso la difesa e la promozione della sua cellula base: la famiglia. La radice comunitaria e sociale della persona costituisce la premessa su cui la voce della Chiesa in campo politico-sociale intende incidere. L’uomo non nasce individuo, atomo disarticolato e monade isolata, ma «persona» aperta all’alterum. L’uomo dunque non entra in società grazie ad un «patto», ad un «contratto sociale» per difendersi da qualcuno o da qualcosa (Hobbes), né tantomeno per divenire «essere civilizzato» come sostiene Rousseau o come insegna la «mistica» liberale. La famiglia, come detto, pre-esiste alla società ed è rivelativa della natura sociale della persona.
«Nella famiglia la nazione trova la radice naturale e feconda della sua grandezza e potenza. Se la proprietà privata ha da condurre al bene della famiglia, tutte le norme pubbliche, anzitutto quelle dello Stato che ne regolano il possesso, devono non solo rendere possibile e conservare tale funzione – funzione nell’ordine naturale sotto certi rapporti superiore a ogni altra – ma ancora perfezionarla sempre più»(Pio XII, Radiomessaggio nel cinquantesimo anniversario della “Rerum Novarum”, Pentecoste 1941)
Il podere, la casa, l’appezzamento di terra rappresentano non semplicemente una giusta ambizione dell’uomo, bensì un «diritto insostituibile» alla luce del fine etico-sociale che la Chiesa persegue.
L’essere umano, quale «animale sociale», è chiamato, inoltre, ad «emanciparsi» dalla sua natura corrotta grazie al sacrificio redentivo di Cristo, il quale «non tollit sed perficit naturam» (non elimina ma porta a perfezione la natura), concetto espresso da san Tommaso d’Aquino nella Summa, il quale costituisce la lente focale per comprendere i rapporti tra natura umana e Rivelazione divina, tra natura e grazia, e che lega in unione simbiotica l’eredità dei classici e il cattolicesimo. L’aretè (virtù) diviene, in tal modo, premessa di santità.
Il Lavoro al centro
La concezione del lavoro è conseguenza di tali presupposti filosofici e teologici. Ne discende l’invito, da parte della Chiesa, a che le comunità politiche si reimpossessino delle strutture corporative, ricentrino l’uomo sulla sua radice comunitaria e partecipativa all’interno dei corpi intermedi, perno e scudo contro ogni sopraffazione arbitraria dello Stato e rimedio avverso lo sfaldamento atomista promosso dal liberalismo.
«Nell’ambito generale del lavoro […] il pubblico potere interviene con una sua azione integrativa e ordinativa, prima per mezzo delle corporazioni locali e professionali, e infine per forza dello Stato stesso, la cui superiore e moderatrice autorità sociale ha l’importante ufficio di prevenire i perturbamenti di equilibrio economico sorgenti dalla pluralità e dai contrasti degli egoismi concorrenti, individuali e collettivi» (Ibidem).
Nella organizzazione della comunità politica le istituzioni, le attività e i servizi da essa espletati devono avere un carattere «sussidiario». Devono cioè «aiutare a completare l’attività dell’individuo, della famiglia, della professione», e non sostituirvisi ad esse. L’ordine dei fini e dei doveri investe sia la persona che lo Stato. Ne deriva che lo Stato ha necessità di riconoscere l’ordine nel quale è iscritto, e in virtù di ciò legiferare in conformità al diritto naturale.
«Una sana democrazia, fondata sugli immutabili principi della legge naturale e delle verità rivelate, sarà risolutamente contraria a quella corruzione, che attribuisce alla legislazione dello Stato un potere senza freni né limiti, e che fa anche del regime democratico, nonostante le contrarie ma vane apparenze, un puro e semplice sistema di assolutismo» (Pio XII, Radiomessaggio ai popoli del mondo intero, 24 dicembre 1944).
La concordia tra capitale e lavoro è condizione indispensabile per la pace sociale e lo sviluppo della società. Il comunismo, nella riflessione dei pontefici, è scrutato ed analizzato sotto la lente d’osservazione di un «capitalismo di stato», che non emancipa condizioni, non pacifica stati d’animo ma, al contrario, assoggetta e disillude, per mezzo della rabbia e di una «liberazione» immanente, proiettata in un orizzonte avveniristico.
«La rivoluzione sociale si vanta di innalzare al potere la classe operaia: vana parola e mera parvenza di impossibile realtà! Di fatto voi vedete che il popolo lavoratore rimane legato, aggiogato e stretto alla forza del capitalismo di Stato; il quale comprime e assoggetta tutti, non meno la famiglia che le coscienze, e trasforma gli operai in una gigantesca macchina di lavoro»(Pio XII, Radiomessaggio nel cinquantesimo anniversario della “Rerum Novarum”… cit.).
Le riflessioni di Pio XII offrono spunti di particolare pregnanza poiché pronunziate in un frangente storico-politico a cavallo tra la seconda guerra mondiale e l’immediato dopoguerra. Spazio di tempo in cui la scena mondiale è immersa in una congerie ideologica, della quale la voce della Chiesa non ha mancato di denunciare limiti ed aspetti critici alla luce del diritto naturale e del fine a cui la comunità politica è, seppur indirettamente, subordinata: ossia il fine sovrannaturale.
Non stupisce, dunque, se Papa Pacelli non manchi di appuntare forti critiche verso la demonia dell’economia, questa volta in salsa liberista:
«Tuttavia l’economia – afferma il Pontefice – con la sua capacità apparentemente illimitata di produrre beni senza numero, e con la molteplicità delle sue relazioni, esercita presso molti contemporanei un fascino superiore alle sue possibilità e su terreni ad essa estranei. L’errore di una simile fiducia riposta nella moderna economia accomuna ancora una volta le due parti, in cui il mondo d’oggi è smembrato»
Queste brevi traiettorie, segnatamente sviluppate in decine di discorsi da Papa Pio XII in un momento peculiare e critico della storia, ripercorrono e seguono l’impostazione lasciata in eredità al Magistero della Chiesa da Leone XIII (Rerum Novarum) e da Pio XI (Quadragesimo anno). Esse risultano particolarmente significative perché in tali proposte si scorge più di un eco di ciò che la tradizione italiana ha espresso in ordinamenti o nel pensiero di teologi, filosofi e giuristi, anche non italiani.
Uno di questi, Carl Schmitt (1888-1985), ebbe a scrivere che la Chiesa non solo è la «depositaria in grande stile dello spirito giuridico, e (quindi) la vera erede della giurisprudenza romana» ma è anche la depositaria, «in grande stile», della Politica «in quanto rappresenta la civitas humana, rappresenta in ogni attimo il rapporto storico con l’incarnazione e il sacrificio in croce di Cristo. […] [Rappresenta] il Dio che si è fatto uomo nella realtà storica».
La politica, per il giurista tedesco, si definisce come «rappresentazione dall’alto di una idea che informa la decisione, momento nel quale tale idea si confronta e si scontra nella contingenza storica».
Lo spirito giuridico che essa incarna, e che riflette la razionalità propria di Roma, sta nella sua struttura istituzionale e nella sua natura di complexio oppositorum (complesso di opposti): il sacerdozio è al tempo stesso un ufficio ed un ministero personale. Vive di una «complessità» legata all’astrattezza ed alla distanza di uno status distaccato e impersonale, ieratico e proteso alle cose sacre, ma, al contempo, intimamente legato ad una persona, ad una individualità ben definita per mezzo di un mandato «personale» che risale alla persona di Cristo. «Nel rappresentare – conclude Schmitt – sta la sua superiorità su di un’epoca di pensiero economico».
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