(17. QUALE SOVRANISMO?) UOMINI, NON SCHIAVI. LA SOVRANITA’ DEL POPOLO E L’INDIPENDENZA NAZIONALE DALL’ANTICA ROMA AL DOMINIO DELLA FINANZA

(17. QUALE SOVRANISMO?) UOMINI, NON SCHIAVI. LA SOVRANITA’ DEL POPOLO E L’INDIPENDENZA NAZIONALE DALL’ANTICA ROMA AL DOMINIO DELLA FINANZA

Il professor Vivaldi-Forti interviene nel dibattito dell’Istituto sul tema della sovranità con un lungo e importante spunto che, partendo dall’Antica Roma e toccando una serie di questioni storiche, arriva fino ai giorni nostri. Il dominio della finanza, principale colpevole della crisi della democrazia e delle identità nazionali, viene fotografato e denunciato in maniera inequivocabile. La proposta del sociologo ritorna sul modello istituzionale di De Gaulle, a cui Vivaldi-Forti ha già dedicato due importanti approfondimenti pubblicati su questo sito. Il primato della politica e la partecipazione sono per lui le prime parole chiave da valorizzare. Il professore, già collaboratore di Gaetano Rasi nel centro studi CESI e autore di numerose pubblicazioni scientifiche, ha avuto modo di formulare una serie di proposte concrete in questo senso e nel testo Una nuova Costituzione per un nuovo modello di sviluppo ( ed. Solfanelli, Chieti 2018), che rappresenta una bussola importante per chi vuole costruire un’alternativa politica ed economica al sistema vigente, nonché un utile spunto di riflessione e dibattito per tutti gli specialisti.

Di Carlo Vivaldi-Forti

Grecia, Roma e Rivoluzione Francese

Purtroppo non esiste un ramo specifico delle scienze sociali, sociologia, psicologia o diritto, che studi in modo sistematico i rapporti fra le istituzioni pubbliche e il prestigio internazionale dello Stato che le adotta. Intendiamoci, molti sono gli autori, in tempi e luoghi diversi, che hanno affrontato questo tema, e io stesso ho ricordato i principali nel saggio Una nuova Costituzione per un nuovo modello di sviluppo, del quale consiglierei la lettura a tutti coloro che volessero approfondire, in maniera semplice e veloce, il pur complesso argomento del costituzionalismo, visto stavolta non  da un giurista, ma da un sociologo  e psicologo sociale. Intendo soltanto stigmatizzare la cattiva abitudine della scienza sociale contemporanea, specie anglosassone, di perdersi dietro alla statistica, come se i numeri fossero chiavi miracolose per penetrare i misteri dei rapporti umani, meglio di quanto sappiano fare gli umanisti autentici. Questa però è una polemica puramente teorica  che è meglio non approfondire.

Tornando quindi al nocciolo della questione osserviamo come, in linea di principio, le buone istituzioni favoriscano l’affermazione internazionale di una res publica, mentre istituzioni cattive o comunque non idonee per  uno specifico Stato, conducano inevitabilmente questo a una progressiva decadenza, fino alla sua definitiva scomparsa. Simile teoria trova numerose e incontestabili conferme. Nell’antica Grecia, quando all’autogoverno della polis, ossia alla partecipazione di tutti i cittadini liberi alla presa delle decisioni, si sostituirono i sistemi oligarchici, elitari e tirannici, la grande civiltà ellenica iniziò la sua parabola discendente, fino alla conquista romana e alla perdita dell’indipendenza. Ma perché Roma si palesò, in quel momento, tanto più forte di città una volta gloriose come Atene, Sparta, Tessalonica o Corinto? La risposta va trovata nella forza e nell’equilibrio delle istituzioni romane, di quella Costituzione mista  profondamente lodata da Cicerone, che si fondava sulla suddivisione del potere fra le diverse classi sociali, che l’illustre giurista toscano Francesco Forti ( 1806-1838) così commenta:

“L’ottimo stato della Repubblica consisteva in una forma mista che sapesse accordare insieme i tre principi della monarchia, dell’aristocrazia  e della condizione popolare, e dar così una legittima influenza a tutte le forze della società. Questo ragionamento in sostanza è quello che si potrebbe fare al presente per sostenere i governi rappresentativi. Cicerone  non arrivò a questa conclusione pratica, benché avesse gettato tutti i fondamenti razionali che vi potevano condurre, se in queste cose fosse dato al ragionamento a priori di precedere l’esperienza”

Ancor  più istruttivo è leggere direttamente il parere di Cicerone nel De Republica:

Come nella musica delle cetre e dei flauti e nello stesso canto vocale bisogna osservare nell’unione di suoni tra loro diversi un accordo intonato e armonioso, che un orecchio esperto  non potrà sopportare se è alterato e stonato; allo stesso modo, dall’armonia delle varie classi sociali, delle più elevate , delle medie  e delle infime, come dall’accordo  dei suoni nasce l’ordinato temperamento dello Stato , per l’equilibrata fusione degli elementi più diversi. Quella che nel canto è dai musici chiamata armonia, è in una città  la concordia, che ha per fondamento la giustizia, ed è il vincolo più saldo e perfetto per tenere unito e potente uno Stato”.

La ruota della storia però non si arresta: dopo la Grecia fu la volta di Roma ad essere cancellata. Quando l’armonia sociale descritta da Cicerone si dissolse , all’epoca del Basso Impero, e il governo cadde nelle mani di lobby corrotte e tiranniche, preoccupate  soltanto del proprio interesse, quella concordia che garantiva l’unità  e la potenza dello Stato crollò, spalancando le frontiere ai barbari, molto meno civili dei romani ma molto meglio organizzati, sulla base  di un’etica rigorosa che privilegiava i principi di solidarietà sociale, unità della famiglia, fedeltà, eroismo, generosità, non concedendo nulla alla ricerca di piaceri e ricchezze fine a se stessi .

In epoche più recenti, potremmo ricordare la Francia post-rivoluzionaria. Dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo  e del cittadino del 26 agosto 1789, in cui erano garantite l’uguaglianza di fronte  alla legge, la libertà in tutte le sue forme, la proprietà, l’inviolabilità del domicilio, la segretezza della corrispondenza, l’illegalità degli arresti arbitrari, si passò al regime del Terrore  e al Direttorio, che di quello  rappresentava l’esito, caratterizzati dal dispotismo  scatenato e dalla corruzione più completa fino a meritare, alla città di Parigi, l’appellativo di “lupanare dell’Europa”, come recita il libretto d’opera dell’Andrea Chénier. Ebbene, durante quel periodo, sul piano internazionale  il Paese perse ogni credibilità, collezionando sconfitte su sconfitte a livello militare che ne minacciavano la stessa esistenza, mentre il giovane generale Bonaparte, unica speranza per il futuro, si trastullava in Egitto a far tradurre la Stele di Rosetta, immaginandosi un nuovo  Alessandro Magno. Avvertito però di quel che stava accadendo, rientrò precipitosamente in Francia e, vista la situazione disperata, organizzò il colpo di Stato del 18 Brumaio, proclamandosi Primo Console e poi Imperatore. Da quel momento la Francia riacquisterà la forza e il prestigio perduti.

Altro esempio , più di un secolo dopo, quello di Charles de Gaulle. Anch’egli giovane ufficiale di belle speranze e grandi ambizioni, rifiutava la deriva pacifista e rinunciataria del Fronte popolare di Leon Blum , che sfornava quotidianamente provvedimenti demagogici , provocando scioperi e ondate di protesta che indebolivano il Paese, mentre la Germania di Hitler andava precipitosamente riarmando. Per denunciare i tremendi pericoli a cui la Francia andava incontro, pubblicò due libri,  Il filo della spada  e Verso l’esercito di mestiere, nei quali elargiva preziosi consigli, anche sul piano tecnico, ai governanti. Inascoltato, come tutti i precursori e i visionari, assistette alla clamorosa disfatta del 1940, da lui ampiamente prevista, e trasferitosi a Londra prese in mano , da solo, le redini della situazione, gettando le basi per la miracolosa ripresa del dopoguerra.

Democrazia contro finanza

Ma cosa ci insegnano gli esempi citati? Semplicemente che il prestigio internazionale, l’indipendenza e, nei casi limite, la stessa sopravvivenza di una nazione  dipendono da ciò che avviene al suo interno, dalle istituzioni che essa si è data e dalla classe dirigente che la guida. Tali riflessioni, tratte dal passato, ci riconducono al presente della nostra Italia. Da molti anni, ormai, assistiamo al progressivo indebolimento della sovranità nazionale: i parlamenti non sono più palesemente in grado di rappresentare la volontà del popolo, mentre si succedono governi di fatto illegittimi, non corrispondenti alla convinzione della maggioranza dei cittadini, imposti da poteri sovranazionali che perseguono il loro esclusivo interesse, disprezzando totalmente le scelte degli elettori. Tanto è vero che anche di fronte al frequente alternarsi di esecutivi di orientamento diverso, in realtà poco o nulla cambia. Gli effetti più rimarchevoli  di tale situazione sono il progressivo distacco dalla politica  dei cittadini, molti dei quali ritengono ormai superfluo recarsi alle urne, il dilagare di un individualismo  e di un egoismo sempre più preoccupanti,  il crollo delle nascite per la mancanza di prospettive future, l’avvento di un sistema generalizzato di corruzione, la progressiva disgregazione dello Stato  e della comunità umana che questo dovrebbe incarnare.

Precisiamo subito che quelle descritte non sono conseguenze casuali o indesiderate, bensì ciò che esattamente i poteri forti globali (la “mafia mondiale”) intendono ottenere. La demoralizzazione  dei popoli e della loro coscienza è infatti il presupposto indispensabile per l’indebolimento e la successiva cancellazione delle identità e delle culture nazionali. Ciò emerge con assoluta chiarezza  anche in campo linguistico: mentre fino a pochi decenni addietro  ciascuna regione, ciascuno Stato  conservava gelosamente il proprio idioma  e i propri dialetti  quali segni distintivi del proprio esistere, alle giovani generazioni è stato imposto uno slang universale, l’inglese del computer, che non è, si noti bene, la lingua nobile di Shakespeare, ancora strettamente imparentata con le sue consorelle germaniche, ma un insieme di abbreviazioni, intercalate da simboli grafici quali le faccine o simili, con il risultato, psicologicamente e mentalmente devastante, di separare il linguaggio dal pensiero. La decerebralizzazione delle masse è il presupposto indispensabile per far loro accettare le scelte politiche, economiche e sociali imposte dall’estero, mediante gli organismi internazionali di cui essa si è facilmente impadronita, in quanto composti da funzionari non eletti, nominati grazie a scambi di favori, estremamente vulnerabili ad ogni forma di corruzione. Più volte si è sentito invocare, come panacea di tutti i mali, una indispensabile, sempre maggiore cessione di sovranità dai singoli paesi  a questi moloch sovrastanti. L’effetto però è la cancellazione non solamente dell’indipendenza delle nazioni coinvolte, ma dello stesso funzionamento della democrazia al loro interno. Dal momento in cui le decisioni  non vengono più prese dai parlamenti eletti a suffragio universale, bensì da commissioni di sedicenti tecnici o esperti, il patto costituzionale con i cittadini è palesemente violato, e se molti scelgono di non andare a votare, non si può dar loro torto.

Basta un breve excursus storico per comprenderne il motivo. Le istituzioni democratiche, dall’ Habeas corpus  inglese fino alle Costituzioni moderne, nascono per garantire il popolo dall’arbitrio regio, ossia dalla nobiltà, l’élite che affianca il sovrano, in assenza della quale egli non potrebbe far nulla. La volontà dei riformatori, quindi, è trasferire gradualmente parte della sovranità di questa  ristretta classe di comando al popolo, dapprima chiamando al voto la borghesia mercantile e industriale (suffragio censitario) poi, con quello universale, tutti i cittadini. Il rimedio all’assolutismo sembra dare buoni frutti: i paesi che adottano questo nuovo modello organizzativo, almeno in un primo tempo, prevalgono nettamente  nella competizione  internazionale, cancellando uno dopo l’altro i vecchi imperi, arroccati nella difesa degli antichi privilegi di casta. Più tardi anche le democrazie entrano in crisi, tanto è vero che nel XX secolo si affermano i grandi totalitarismi, comunismo, fascismo, nazionalsocialismo, tutti tentativi, peraltro falliti, di porre rimedio al declino della democrazia. Ma perché quest’ultima, che aveva iniziato così bene il proprio percorso, era decaduta fino al punto da sollecitare l’esigenza di radicali alternative?

Una nuova rappresentanza oltre i limiti del liberismo

La risposta va cercata nell’involuzione dell’istituto della rappresentanza. L’elettorato, che esprime la società civile in tutte le sue componenti economiche, sociali, culturali, non governa direttamente il sistema, ma affida tale compito a una categoria di rappresentanti  (deputati e senatori) che lo fa in suo nome. Ebbene, col tempo si formano, spinte dalla rivoluzione industriale, nuove élite che prosperano grazie al mercato globale, ignorando i confini degli Stati, le quali danno vita a una specifica ideologia: il liberismo. La democrazia rappresentativa sembra ancora reggere, malgrado tutto, fino a che l’élite continua a identificarsi con la produzione di beni e servizi reali, ma collassa quando questa cede il passo alla pura speculazione finanziaria. Come aveva giustamente intuito Carlo Marx, la trasformazione del potere industriale in finanziario segna la fine del capitalismo, almeno come tradizionalmente lo avevamo conosciuto; insieme ad esso, però, crolla pure la democrazia rappresentativa, nata per esprimerlo nelle istituzioni. I drammi  del secolo scorso, le dittature, le guerre mondiali, le crisi economiche e le rivoluzioni, sono  i sussulti che accompagnano questo cambiamento.

Il secondo dopoguerra registra una temporanea ma forte battuta d’arresto di questo processo di disgregazione. Il severo stile di vita imposto dalle distruzioni belliche, unito alla divisione del mondo in due contrapposte sfere d’influenza, frena le pretese di dominio universale  della “mafia finanziaria”. Esse riprendono invece vigore dopo il crollo dell’impero sovietico, termine di confronto fra capitalismo e comunismo. I pochi detentori delle ricchezza planetaria si convincono di non avere più nemici. La fine della storia teorizzata da Fukuyama alimenta le loro certezze ed esalta la loro megalomania . Resta però un ultimo ostacolo da rimuovere per realizzare, la prima volta nella storia, l’impero universale: le molteplici nazionalità, etnie e culture , mantenute in vita dai legami di sangue ancestrali che le hanno create. Ed ecco perché la lotta  contro quest’ultime si scatena con incredibile violenza e con ogni mezzo disponibile: imposizione  di un pensiero unico, di un unico stile di vita, di una sola lingua, di un mercato che produce una limitatissima classe di straricchi e una immensa moltitudine di miseri, i nuovi schiavi.

Poiché l’attacco globale si scatena in primis contro il principio di nazione, è proprio di qui che bisogna organizzare la controffensiva. Constatato che i ceti dirigenti eletti nei parlamenti nazionali, o sono venduti ai poteri forti globali, o nella migliore delle ipotesi rivelano una totale incapacità di fronteggiarli, è imperativo categorico realizzare una rivoluzione culturale di 360 gradi, quella partecipativa, che in termini concreti significa rovesciare la direzione del flusso decisionale: non più dal vertice alla base ma dalla base al vertice. Occorre quindi riscoprire il principio del consenso, tipico della polis greca e del libero comune medioevale, mediante nuovi strumenti di democrazia diretta.

La loro puntuale descrizione richiederebbe numerosi interventi, per cui è opportuno rinviarla a prossimi approfondimenti. Per il momento  mi limito a indicare nella Costituzione francese della Quinta Repubblica, sia nella parte realizzata,  sia in quella non attuata a causa del risultato negativo del referendum  del 1969, un modello virtuoso a cui ispirarsi. Le istituzioni concepite da de Gaulle per la rinascita della Nazione dopo la disfatta del 1940 e le catastrofiche guerre coloniali del Vietnam e d’Algeria, rilanciano in chiave moderna quella concordia ordinum, obiettivo principale della Costituzione mista di Cicerone. Gli elementi vi si ritrovano tutti : l’ispirazione monarchica incarnata dal Presidente  eletto  direttamente dal popolo; l’uso saggio e non inflazionato del referendum, applicabile anche a provvedimenti di natura economica e costituzionale; l’istituto dei pieni poteri del Capo dello Stato  in caso di gravissime emergenze, che si riallaccia a quello del diritto romano  del dictator; infine ( questa purtroppo è la parte non realizzata, ma che prima o poi lo sarà, e non soltanto in Francia) la partecipazione  a tutti i livelli, sia nel campo istituzionale, con l’elezione della Seconda Camera, oltre che di metà dei Consigli Comunali e Regionali, a rappresentanza economico-sociale-culturale, sia in quello aziendale, con l’associazione alle decisioni di tutti i collaboratori nelle imprese private e negli enti pubblici. In tal modo il principio della più ampia e autentica democrazia si sposa con quello, peraltro irrinunciabile, di gerarchia e d’autorità. Tutto ciò, scrive Jacques de Montalais , ex-direttore del quotidiano “La Nation” organo del partito gollista, rilancia il prestigio del Paese nel mondo:

“La volontà d’indipendenza nazionale ha senso, in una democrazia, solamente quando le comunità umane che costituiscono le nazioni sono ritenute in grado di scegliere il loro destino e di pronunciarsi  sul loro avvenire. De Gaulle è convinto che lo siano. L’accento posto dal gollismo sul diritto dei popoli a disporre di se stessi  non si spiega in altro modo. Perché questo diritto implica l’uguaglianza morale della debolezza e della potenza, ma anche la supremazia del diritto sulla forza,  ovviamente quando il diritto proprio rispetta quello legittimo degli altri”

Da questi esempi bisogna oggi ripartire, per assicurare ai nostri discendenti un futuro degno di esseri umani e non di schiavi.

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