Di Raimondo Fabbri
L’ingresso della HHLA (Hamburger Hafen und Logistik) nel capitale azionario come socio maggioritario della PLT, la società che gestisce la Piattaforma Logistica del porto di Trieste, ha scatenato una serie di reazioni che tornano utili come spunti di riflessione per approfondire il tema della connettività e prefigurare scenari senza cedere al vittimismo ed al piagnisteo che purtroppo negli ultimi decenni hanno consegnato l’Italia ad una posizione di subalternità. La collocazione strategica di Trieste è cosa nota e che fosse un importante snodo geopolitico lo aveva evidenziato Giorgio Roletto già 70 anni fa, quando la definì come un «quadrivio», aggiungendo che l’esigenza di accedere al Mar Mediterraneo per sfruttarne le potenzialità commerciali, fosse una storica inclinazione delle popolazioni germaniche. Non dovrebbe stupire quindi se la società tedesca, quotata in borsa e partecipata al 68,4% dalla città di Amburgo con oltre 6.300 dipendenti e 7,5 milioni di Teu movimentati, sia interessata ad entrare nella gestione del porto franco. Con l’aumento di capitale derivante dall’accordo sono previsti maggiori investimenti nella nuova area portuale necessari allo sviluppo dell’infrastruttura, convogliando a Trieste le grandi opportunità di scambio esistenti tra Europa ed Asia. I tedeschi poi sono costretti a fronteggiare la realtà del cambiamento climatico che nel settore trasportistico pesa sui porti fluviali di Amburgo e Rotterdam, a causa della siccità che nei mesi estivi affligge la navigazione delle merci attraverso le vie d’acqua interne, orientandoli inevitabilmente verso l’Italia.
Le opportunità di Trieste e la necessità di una strategia nazionale
Dal punto di vista sostanziale e geopolitico l’accordo non può essere semplicisticamente liquidato come un’annessione germanica dato che di tale sinergia potrebbe giovarsi prima di tutti la città alabardata e la sua Piattaforma Logistica, nata proprio per rispondere al trend di crescita del traffico merci dello scalo giuliano e sviluppata dalla società costituita dalla casa di spedizioni Francesco Parisi, dall’impresa di costruzioni ICOP e dall’interporto di Bologna, che hanno permesso la realizzazione di un terminal con estensione di 24 ettari, dotato di un doppio attracco e di un raccordo ferroviario. Semmai bisognerebbe capire come di fronte all’esigenza di ridisegnare il piano logistico nazionale, l’Italia sia stato l’unico paese europeo a non aver favorito la creazione di un campione nazionale fra i terminalisti che, sostenuto direttamente o indirettamente dallo Stato, avrebbe potuto efficacemente promuovere i nostri interessi nazionali nei traffici commerciali. Rispetto agli allarmi sui tentativi di colonizzazione economica e commerciale, su cui peraltro vigilano costantemente i nostri servizi di intelligence, è doveroso ammettere per onestà intellettuale che l’atteggiamento italiano nei decenni passati, ovvero il completo disinteresse per il settore logistico sia stato scellerato, nonostante alcuni progetti come quello del compianto Angelo Ravano e della Contship su Gioia Tauro. Non c’è stata una visione nazionale in grado di superare le rivalità campanilistiche per sfruttare al meglio le opportunità che la geografia ha donato al nostro Paese. In questo senso anche per l’Unione Europea sarebbe prioritario dar vita ad un colosso continentale in grado di partecipare alla competizione economica globale che oggi vede impegnati esclusivamente Stati Uniti e Cina. Pertanto è proprio guardando all’alleanza italo-tedesca nel porto di Trieste che diviene possibile auspicare una “terza via” che solleciti l’Europa ad interpretare finalmente un ruolo da attore globale nella rete delle supply chain, anche riscoprendo un corridoio trasportistico esistente da secoli come la Via della seta e per sfruttare il quale appare appare imprescindibile, ora più che mai, dotarsi di una politica industriale legata alla filiera logistica, con la reale consapevolezza degli interessi da tutelare e delle ripercussioni geopolitiche delle scelte che verranno effettuate. Non c’è dubbio alcuno che la mossa tedesca abbia scombinato i piani cinesi,persuasi che il memorandum siglato nel 2018 con l’Italia garantisse alla CCCC di avere un ruolo centrale nello sviluppo del porto giuliano all’interno di quella Belt and Road Initiative che Zeno D’Agostino ha magistralmente definito come «un progetto che nasce a Pechino ed è gestito totalmente dai cinesi per raggiungere i loro obiettivi ed interessi». Tuttavia in Europa esistono le capacità per non essere completamente subalterni agli altri attori globali e l’Italia stessa, quando si parla di infrastrutture, ha dato ampiamente prova delle proprie potenzialità per contribuire a questo obiettivo: ad esempio nel settore delle costruzioni con We Build, soggetto privato nato dalla fusione di Salini-Impregilo e Astaldi e divenuto un player mondiale delle costruzioni (da ultimo la rapida realizzazione del Ponte di Genova) capace di reggere il confronto con colossi cinesi e statunitensi; oppure Ferrovie dello Stato che con la sua «diplomazia del ferro» è riuscita ad esportare tecnologia all’estero risultando determinante per il rilancio della percezione del modello italiano al di fuori dei nostri confini in un settore come quello ferroviario oramai rivalutato e su cui si punterà molto in futuro. Il concetto che deve suonare forte e chiaro è molto semplice: l’Italia e l’Europa ci sono con competenze e risorse per poter giocare la partita, proponendosi come terza via fra le due potenze che oggi si affrontano sul terreno del capitalismo politico. Per fare ciò saranno comunque necessari una chiara visione ed una robusta consapevolezza, unite ad un rinnovato impegno dello Stato nel sostenere quelle iniziative imprenditoriali in grado di dare profondità strategica alla nostra Nazione.
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