FANFANI, LE ORIGINI DEL CAPITALISMO E LA STORIA NASCOSTA DELLA REPUBBLICA

FANFANI, LE ORIGINI DEL CAPITALISMO E LA STORIA NASCOSTA DELLA REPUBBLICA

Di Francesco Carlesi

Fanfani tra Weber e Sombart. Un dibattito di alto livello

Tra i tanti tabù sulla storia della nostra Repubblica c’è sicuramente quello della “continuità” tra fascismo e sistema politico del dopoguerra. Non solo nei gangli amministrativi, ma anche in quelli sindacali e politici molti protagonisti della macchina del regime tornarono protagonisti dopo il 1945. La Cgil beneficiò largamente delle classi dirigenti sfornati dalle scuole sindacali del ventennio, mentre il mondo culturale si riempiva di tanti giovani mussoliniani “convertiti sulla via di Damasco” più o meno sinceramente: Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Eugenio Scalfari e Dario Fo solo per fare i nomi più noti. Persino diversi protagonisti dell’Assemblea Costituente avevano maturato larga parte del loro bagaglio culturale durante il ventennio, nella Democrazia Cristiana in primis, tanto che Sabino Cassese ha scritto:  «Si pensi alla continuità tra alcune affermazioni del codice del 1942 (e della stessa “Carta del Lavoro” del 1927) e talune disposizioni della Costituzione (ad esempio, quelle in tema di proprietà e iniziativa economica); si pensi alla proposta fatta da un sindacalista socialista, nel dopoguerra, di mantenere in vita le corporazioni, democratizzandole; si pensi alla continuità costituita dal permanere in vita di tanta parte della legislazione del periodo 1930–1940, spesso costituita da norme che erano il frutto del naturale processo di adeguamento delle istituzioni al mutare delle condizioni economiche e sociali».

Tra tutti i personaggi coinvolti in questi passaggi storici, il nome più influente fu quello di Amintore Fanfani. Brillante e giovane professore della Cattolica di Milano, tra le due guerre fu un acceso sostenitore del corporativismo e del tentativo di superare sia il capitalismo che il comunismo attraverso una “terza via” economica e sociale. Tra i suoi scritti degli anni ’30 riveste importanza centrale “Le origini dello Spirito capitalistico in Italia”, datato 1933 e appena ristampato dalle edizioni Ar. Si tratta di un testo di importanza epocale: con il suo studio, l’aretino intendeva porsi in scia e superare studiosi del calibro di Werner Sombart e Max Weber, il quale ultimo aveva coniato la celebre teoria dell’importanza dell’etica protestante (con la sua idea di “predestinazione” per la salvezza utraterrena, che spingeva gli uomini a cercare il successo economico quale segno tangibile di essa) per la formazione dello spirito capitalistico. Come ha sintetizzato Sabino Morano nella postfazione al volume, «i seguaci del Protestantesimo (specie nella sua declinazione calvinista) ritenevano che fosse un dovere impegnarsi con zelo nella propria attività, in quanto il successo economico avrebbe dato fulgore a quelli segnati dalla benevolenza divina (…). Questa visione specifica (…) portò Max Weber ad affermare che nessuna altra tradizione religiosa (specie quella dei “puritani”), aveva indotto il popolo a vedere nell’accumulo di capitale (e nel risparmio di denaro) un segno della grazia eterna di Dio». Ecco perché, secondo lui, l’Inghilterra o i Paesi Bassi erano arrivati prima e meglio dei paesi cattolici come Italia e Spagna.

Per Fanfani non è completamente così. Lo scisma protestante è solo un acceleratore di un processo che comincia ben prima, quando nel 1300 i valori cattolici cominciano a entrare in crisi: un forte sviluppo dell’economia porta molti uomini a mirare ad agi e lussi, mettendo in parte in crisi il pensiero del tomismo e della scolastica improntato alle idee di povertà e “giusto mezzo”. Nasce lentamente un nuovo spirito borghese legittimato, con tutte le complessità del caso, da autori quattrocenteschi quali Tommaso De Vio e Leon Battista Alberti. Il libro di Fanfani si configura dunque come un affascinante viaggio dal Medioevo al Rinascimento italiano, tra testi d’epoca, dibattiti, guerre, scambi commerciali e ascesa di nuovi protagonisti sulla scena politica, economica e sociale. Uno spaccato che ci restituisce una profondità culturale e una capacità critica sempre più lontane ai giorni nostri.

Fanfani, un politico da riscoprire

La critica al capitalismo e la necessità di un nuovo modello sociale rimasero delle costanti del pensiero fanfaniano anche nella Dc. L’articolo 1 della nostra Costituzione, che parla di «Repubblica democratica, fondata sul lavoro», fu promosso proprio dall’aretino in opposizione alla «Repubblica di lavoratori» che voleva Togliatti, animato dall’idea di lotta (e non collaborazione) di classe. In questo passaggio, Gaetano Rasi ha individuato nell’opera di Fanfani il portato, consapevole o meno, dell’umanesimo del lavoro di Giovanni Gentile. Anche sul tema della programmazione economica Fanfani si spenderà molto, mettendo in pratica da ministro interessanti politiche che favorirono lo sviluppo sociale e il miracolo economico degli anni ’50.

Ancora, l’articolo 39, che sancisce il riconoscimento giuridico dei sindacati (mai realmente applicato) e l’importanza dei contratti collettivi validi erga omnes, furono altri elementi valorizzati dall’autore de “Le origini dello Spirito capitalistico in Italia”. Nel dibattito costituente relativo a quell’articolo, Fanfani protestò contro il diritto di sciopero previsto per legge, riprendendo in questo la prassi fascista che aveva dichiarato illegali sia la serrata che lo sciopero. «Se lo Stato ammette lo sciopero, riconosce la sua incapacità a tutelare la giustizia nei confronti dei lavoratori. Ma questa ammissione non può essere fatta in Costituzione», disse per giustificare la sua posizione, che si richiamava in larga parte a impostazioni corporative. Infine, dove in maniera forte si ravvisò una continuità con il passato fu nel caso dell’articolo 46 sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, promosso con convinzione da Fanfani tra gli elogi ma anche le critiche di diversi padri costituenti, come Taviani. Anche quest’ultimo era un dirigente Dc che negli anni ’30 aveva sposato in pieno le ragioni del fascismo, da lui apprezzato in particolare quale argine alla “barbarie materialista” del comunismo. Come già sottolineato, ben pochi intellettuali non avevano appoggiato la “terza via” tra le due guerre: un economista cattolico di primo piano come Jacopo Mazzei, vicino a Fanfani, inneggiò ad un «totalitarismo corporativo» su scala europea che inaugurasse una vera e propria rivoluzione sociale.

L’art. 46 riconobbe il diritto dei lavoratori a «collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende»[1] e ancora in una delle sue ultime opere, nel 1976, Fanfani rilanciò i temi della partecipazione del superamento di capitalismo e comunismo scrivendo Capitalismo, Socialità, Partecipazione[2], e rimanendo in contatto con “corporativisti” con cui aveva condiviso esperienze tra le due guerre, Ernesto Massi per primo. In definitiva, la ripubblicazione de “Le origini dello spirito capitalistico” ci porta dritti dentro una lunga storia da riscoprire, per capire le complessità della storia e conoscere meglio gli uomini che, con tutte le loro luci e ombre, hanno costruito la nostra nazione.


[1] Si veda anche il secondo comma dell’articolo 3: «E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

[2] A. FANFANI, Capitalismo, Socialità, Partecipazione, Mursia, Milano 1976.

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