OLTRE IL CAMBIO DI GOVERNO. DEMOCRAZIA SENZA POPOLO

OLTRE IL CAMBIO DI GOVERNO. DEMOCRAZIA SENZA POPOLO

Di Mario Bozzi Sentieri

L’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi conferma la crisi strutturale del nostro sistema democratico. Di questo, anche di questo, vorremmo sentire parlare, a partire certamente dalla fine di un’esperienza di governo (il Conte 2), ma ben oltre essa.

Il super tecnico chiamato per rimettere in carreggiata gli sgangherati assetti nazionali non può essere considerato un passaggio di routine. E’ la prova che i vecchi assetti costituzionali, costruiti intorno alla Costituzione del 1948, mostrano ormai gravi crepe ed evidenti cedimenti strutturali, al punto da mettere in discussione i fondamenti stessi della democrazia.  Sia chiaro: dei limiti e delle debolezze del sistema democratico sono pieni gli scaffali. Così come della retorica che ha sempre accompagnato il “migliore sistema possibile”. A rendere del tutto particolare l’attuale stagione  sono le ragioni della crisi sistemica.

Un tempo, negli anni della Prima Repubblica, la critica nei confronti delle istituzioni democratiche si focalizzava  sullo strapotere delle segreterie dei partiti, sul  gregarismo ideologico, sulla denuncia dell’occupazione partitocratica dello Stato, con il conseguente controllo del cosiddetto sotto governo e dell’amministrazione pubblica, correlata alla corruzione diffusa. Oggi paradossalmente è l’indebolirsi  della mediazione dei partiti, a vantaggio di una visione leaderistica e deideologizzata dell’azione politica, che ha ridimensionato  la partecipazione popolare alla vita pubblica e di conseguenza il  potere del popolo sovrano, ormai ridotto ad essere (sulla scena elettorale) una mera comparsa piuttosto che il protagonista principale.

Siamo – a tutti gli effetti – in quella che il sociologo Colin Crouch ha definito post democrazia: un sistema politico, formalmente democratico, nel quale le occasioni di partecipazione dei cittadini sono compresse a favore di altre  forme decisionali, rappresentate dai tecnocrati, dalle lobby, dai media, dalla burocrazia.

“Anche se le elezioni continuano a svolgersi e condizionare i governi – ha scritto, nel 2003, Crouch in Postdemocrazia –  il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’integrazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici.”

La sostituzione della politica da parte della tecnocrazia è l’ultima, estrema, fase del processo di erosione delle tradizionali forme di rappresentanza democratica. E’ L’ingranaggio del potere, titolo di un recente saggio di Lorenzo Castellani, studioso di orientamento liberale,  nel  quale viene stigmatizzata la crisi della  politica, ormai incapace di assumere decisioni coraggiose, coerenti rispetto a specifiche  visioni del mondo, a tutto vantaggio del potere dei tecnici, legittimato – scrive Castellani – dalla  competenza cioè dalla “conoscenza specialistica degli individui, fornita e certificata dalla struttura stessa della società attraverso istituzioni educative, programmi di studio, titoli, esami e concorsi. (…) Di conseguenza i poteri non-elettivi, a carattere tecnico, oggi condizionano la vita dei cittadini e le scelte politiche allo stesso modo, se non forse ancor di più, di quelli elettivi e rappresentativi”. Al fondo c’è  “la riduzione della società a un unico criterio di gestione”, nella pretesa di depoliticizzazione delle decisioni da parte dei fautori della tecnocrazia e nell’ottica di una uniformazione del tutto, al fine di attuare una regolare amministrazione dell’esistente priva di qualsivoglia conflitto politico, ideologico o culturale.

La denunciata crisi “di sistema” passa attraverso questi percorsi, segnati dall’apatia (impolitica) delle opinioni pubbliche, dallo sbiadirsi delle distinzioni a tutto vantaggio dell’efficienza uniformante, costruita sugli spread, sul giudizio dei mercati, sul “buon governo” dei competenti. Le recenti cronache politiche nazionali sono tutte interne a questi meccanismi.

Prenderne coscienza significa certamente riaprire l’annosa questione sulla capacità del sistema democratico-parlamentare a rappresentare gli interessi reali e la volontà del popolo sovrano, ma nel contempo, proprio in ragione della complessità delle società contemporanee, di individuare gli strumenti adeguati per coniugare partecipazione e competenze, tutele democratiche ed efficienza.  Senza perdere di vista – nel contempo – quello che il Magistero della Chiesa ha denunciato, con Benedetto XVI (“Caritas in veritate”), come “l’assolutismo della tecnica”, con la conseguente necessità di riportare la tecnica stessa nell’alveo delle aspirazioni, delle tensioni dell’animo, degli orientamenti culturali: una partita complessa – come si vede – che va ben oltre le contingenze legate ad  un governo da mettere in piedi e ad  un Paese da rimettere in carreggiata, e che si gioca, nei metodi e nei contenuti, sulle scelte “di valore”, che dovrebbero essere alla base, insieme all’adozione di decisioni, della politica.

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