1920, LA PRIMA PUGNALATA AL PROLETARIATO ITALIANO. IL COMUNISMO ITALIANO E CENT’ANNI DI TRADIMENTI

1920, LA PRIMA PUGNALATA AL PROLETARIATO ITALIANO. IL COMUNISMO ITALIANO E CENT’ANNI DI TRADIMENTI

Di Andrea Scaraglino

Cent’anni da quel fatidico 21 gennaio 1921, cent’anni dalla nascita del Pcd’I, un secolo di ribaltamenti ideologici sottaciuti e professionalmente nascosti dalla più rigida disciplina di partito che l’Italia abbia conosciuto. Un secolo di tradimenti del mandato politico, spesso strappato con l’inganno dalle mani dello sprovveduto proletariato italiano, e rimodulato di volta in volta alle esigenze tattiche della politica moscovita. Si potrebbero fare mille esempi di questa spregiudicata condotta politica ma con queste poche righe si vuole porre l’accento su quello che, probabilmente, fu il primo voltafaccia del comunismo nei confronti del proletariato italiano. Una “pugnalata”, si badi bene, inferta alla stesso partito socialista (siamo nel 1920 e il segretario del Psi Nicola Bombacci aveva abbondantemente bolscevizzato il partito riducendo all’inconsistenza politica i vari riformisti alla Turati e Serrati) che al grido di «tutto il potere ai soviet» aveva deciso di seguire il “sol dell’avvenire”.

Nel ’36, dopo il famoso riavvicinamento al vecchio compagno di partito nel frattempo divenuto Primo ministro, Bombacci, così descriveva l’incontro con l’emissario di Mosca a Copenaghen a cui chiedeva consiglio e aiuto per accendere la miccia rivoluzionaria in Italia: «La mia memoria e più ancora l’animo mio di sincero idealista – e in quell’epoca di convinto socialista – non ha dimenticato quell’incontro glaciale, condito di sarcasmo ed ironia (…) Mosca deve riprendere i suoi commerci, i suoi rapporti economici e politici con gli stati capitalistici; questo è il problema urgente della Russia sovietista, non altro[1]».

La missione danese del Psi del 1920 di cui si parla fu organizzata con una duplice finalità. Bombacci e Angelo Cabrini – l’altro emissario socialista, nonché presidente della Lega Nazionale delle Cooperative – furono fatti partire con il beneplacito dell’allora presidente del consiglio italiano, Saverio Nitti, che pensava di utilizzare il Psi e la LNC per riallacciare i contatti commerciali con la Russia. Dal canto loro, Bombacci e Cabrini speravano di poter affidare alle cooperative rosse i nuovi contratti di import-export che si sarebbero stipulati all’indomani della riapertura degli scambi commerciali e dare vita ad un rapporto politico che avrebbe portato la rivoluzione in Italia nel medio-lungo termine. Il Tentativo di Bombacci e Cabrini è stato esaustivamente sviscerato da Serge Noiret in un saggio apparso su “Storia Contemporanea”: «A questo scopo, L’ex segretario del partito, il deputato massimalista di Bologna Nicola Bombacci ed il deputato Angiolo Cabrini, dirigente della Lega Nazionale delle Cooperative, ottennero da Nitti di recarsi a Copenhagen nell’aprile 1920, per incontrare alcuni rappresentanti del governo sovietico. La missione ufficiosa aveva in realtà lo scopo di sondare i sovietici per conto di Nitti, nella prospettiva di una possibile ripresa delle relazioni commerciali tra i due paesi. I delegati del Psi (…) intendevano ad un tempo ottenere il monopolio delle relazioni economiche tra l’Italia e il nuovo stato socialista e ricevere informazioni in merito alla possibilità di attuare o meno una rivoluzione in Italia»[2].

Sempre Noiret descrive bene l’assoluta chiusura dei bolscevichi nei riguardi del tentativo rivoluzionario italiano: «Ciò che in realtà si aspettava Bombacci da questo colloquio, ciò che si aspettava il Psi da molti mesi, era un contatto al più alto livello con i dirigenti russi, onde ottenere direttive e consigli per rendere possibile ed accelerare il movimento, nonostante le negative condizioni politiche in Europa occidentale. Egli non voleva rassegnarsi a mettere definitivamente la rivoluzione tra parentesi e sperava, soprattutto, di ottenere delle direttive ben precise da parte di Lenin». Da questo punto di vista la missione di Bombacci in Danimarca fu un vero fiasco. Il pragmatismo sovietico non ammise deroghe all’idealismo massimalista italiano, Noiret continua: «Litvinov adduceva argomenti fuori luogo, ad esempio il fatto che la rivoluzione in Italia avrebbe rafforzato  il capitalismo in Francia. Senza rivoluzione in Italia si sarebbe in ogni caso rafforzato il capitalismo italiano, ciò che i russi in realtà desideravano (…) a differenza della Francia di Clemenceau e Millérand, fermamente contraria ai bolscevichi, il mercato italiano era a questi accessibile, grazie alla politica revisionista di Nitti».[3]

“La volontà di potenza” di Mosca fece, dunque, “carne di porco” dell’idealismo nostrano, sacrificò l’”esigenza” rivoluzionaria italiana ai propri interessi economici e politici. Una storia che vedremo ripetersi tante volte. Di per sé un comportamento comprensibilissimo a livello di politica estera, ma che stona enormemente con la vocazione internazionalista che voleva il comunismo l’unico faro per il proletariato. Quest’ultimo, da quel lontano 1920 – con le dovute eccezioni temporali e geografiche –  si rinchiuse sempre di più nella sua veste di classe, abbandonando i “corpi” delle rispettive nazioni. Prestando, quindi, il collo al capitalismo che ha potuto affondare il suo coltello di austerità nei tessuti sociali nazionali, sfiancati da decenni di lotte intestine e incapaci di difendersi dall’aggressione finale dell’altra faccia del materialismo nato a Treviri, quello liberale.


[1] N. Bombacci, La disfatta di Litvinoff (Dopo Monaco) ne “La Verità”, a. III, n.10, ottobre 1938, p. 592.

[2] S. Noiret, Le origini della ripresa delle relazioni tra Roma e Mosca, in “Storia Contemporanea”, a. XIX, n. 5, ottobre 1988, pp.797-798).

[3] Ivi, p. 841.

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