Di Natalia Andreozzi
Dall’art. 41 a oggi. Come cambia il concetto di impresa
L’art. 41 delle Costituzione, così com’è stato concepito dai padri costituenti, ha tentato di dare origine ad un modello di economia mista, nel quale l’iniziativa privata convive con il perseguimento dei fini di utilità sociale. Esso è composto da tre commi che recitano testualmente: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. I dispositivi contenuti in questo articolo sono tre e affermano tre principi altrettanto fondamentali:
- l’iniziativa economica privata è libera;
- i limiti alla quale tale iniziativa è sottoposta;
- le modalità di intervento pubblico affinché l’iniziativa sia coordinata e indirizzata.
La Costituzione non indica una definizione di ciò che s’intende per utilità sociale, ma oggigiorno è chiaro che essa deve tendere ad una conciliazione fra l’utilità della comunità e l’utilità individuale e imprenditoriale.
Sempre in merito alla gestione dell’attività imprenditoriale, al Titolo II del Codice civile viene disciplinato il lavoro nell’impresa, indicando in maniera più o meno puntuale in cosa consiste il sistema giuridico delle attività economiche che ruotano attorno alla figura dell’imprenditore. E’ già all’art. 2082 che vi si ritrova la definizione di quest’ultimo: “E’ imprenditore chi esercita personalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni o servizi”. Oltre a definirne i contorni, nella sua formulazione originaria, l’art. 2086 disponeva che “L’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori”.
Con il Testo Unico della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D. Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14, in attuazione della legge 19 ottobre 2017 n. 155) che dovrebbe entrare in vigore il 1° settembre 2021 – sebbene sia già vigente tutta la parte relativa alla modifica delle disposizioni del Codice civile – è stato modificato totalmente l’art. 2086 riguardante la gestione d’impresa. La rubrica così sostituita dall’art. 375, comma 1, D. Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, a decorrere dal 16 marzo 2019, ai sensi di quanto disposto dall’art. 389, comma 2, del medesimo D.Lgs. n. 14/2019 recita: “Gestione dell’Impresa”. La rubrica precedentemente in vigore era il seguente: «Direzione e gerarchia nell’impresa». Oltre a tale modifica è stato aggiunto un secondo comma che dispone “L’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”.
Con questa rivisitazione operata, le procedure concorsuali iniziano un nuovo percorso attraverso il quale si tenta di delineare una gestione aziendale diversa che deve avere l’obiettivo di prevenire la crisi d’impresa, intesa come quella condizione vissuta dalle aziende che versano in condizioni di difficoltà economiche reiterate. Il comma 2 del novellato art. 2086 del c.c. correla ancor di più la gestione aziendale all’assetto organizzativo, al suo organigramma e alla ripartizione delle risorse umane e materiali dell’azienda. Questi ultimi due elementi devono poter rispondere in maniera funzionale anche alla rilevazione tempestiva di un’eventuale crisi d’impresa o anche ad un’eventuale perdita del going concern (continuità aziendale). In capo all’amministratore o all’organismo amministrativo pende la responsabilità di verificare tempestivamente l’andamento economico/patrimoniale e poter disporre le opportune modifiche all’organigramma aziendale.
Per chi viola il principio fondamentale di adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile di qualsiasi tipo di società (di persone, di capitali, cooperative e consortili) vengono previsti due tipologie di sanzione. La prima riguarda la sussistenza o l’aggravamento delle responsabilità civili e penali degli amministratori e dei componenti degli organi di controllo (sindaci) che non hanno operato adeguandosi al Codice della crisi di impresa; la seconda è diretta alle società, alle quali sarà precluso o limitato l’utilizzo delle nuove procedure pre-concorsuali, attraverso le quali si dovrebbe garantire la continuità aziendale.
Blocco dei licenziamenti senza programmazione e collocamento. Un disastro all’orizzonte?
Entrando ora nel merito della gestione delle risorse umane, in questi mesi ci si è chiesti in che modo il cosiddetto blocco dei licenziamenti inserito col D.L. 18/2020 sia legittimo costituzionalmente e compatibile con il dispositivo di cui all’art. 2086 del c.c., in questo contesto di emergenza sanitaria provocata dal Covid-19 e che pone in essere una temporanea o strutturale inutilizzabilità dei propri lavoratori subordinati.
Ripercorrendo brevemente questi mesi di emergenza epidemiologica e di pubblicazione di decreti legge più o meno utile ad affrontare l’emergenza sociale correlata, sono state varate diverse misure tese a limitare il diritto di recesso dal rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro. Nello specifico, l’art. 46 del D. L. 18/2020 (decreto Cura Italia convertito con Legge n. 27/2020) vieta i licenziamenti per motivi economici e sospende i procedimenti per i licenziamenti collettivi, fatte salvo i casi di recesso in ipotesi di appalto laddove il personale già impiegato sia riassunto a seguito di subentro del nuovo appaltatore. Data la natura fortemente restrittiva delle disposizioni imposte, con il D. L. 104/2020 (decreto Agosto convertito con Legge n. 126/2020), le misure introdotte a marzo sono state mitigate prevedendo delle eccezioni nei quali casi il divieto di licenziamento non opera.
Rispetto alla limitazione della libertà imprenditoriale e al contempo nel rispetto della tutela della libertà sociale, la questione che rileva maggiormente è la seguente: quali misure sono state attuate dal nostro Governo al fine di bilanciare in maniera equa il limite alla libertà imprenditoriale? Il divieto di licenziamento, segue un principio costituzionale ben preciso e contenuto nello stesso art. 41 della Costituzione. Quest’ultimo, infatti, non sancisce solo che l’iniziativa economica privata è libera ma dispone anche che essa deve perseguire fini di utilità sociale.
Il Governo, nell’ottica di favorire e perseguire il dovere di solidarietà sociale, tutelando i redditi e la stabilità occupazionale in un periodo nel quale la ricollocazione delle risorse all’interno del mercato del lavoro non offrirebbe valide soluzioni alternative a causa dell’emergenza sanitaria, ha adottato una misura per impedire un’emorragia di licenziamenti individuali e collettivi, che avrebbe aggravato il disagio sociale che stiamo vivendo. Tuttavia, il blocco dei licenziamenti non può essere inteso come una misura straordinaria e temporanea considerato che perdura da quasi un anno e sarà presumibilmente prorogato. Inoltre, non sembra ravvisarsi la costruzione di un sistema che sostenga un rilancio economico delle imprese, soprattutto le piccole e medie, che cammini parallelamente al blocco dei licenziamenti stessi[1]. Allo stesso modo la riforma dei centri per l’impiego, con finalità di reale intermediazione tra domanda ed offerta di lavoro, si è nuovamente arenata lasciandoci centinaia di navigator completamente inutili ed inutilizzati, ed il rischio di centinaia di disoccupati quando il blocco dei licenziamenti verrà, per ovvi motivi, non prorogato.
Oltre ai quesiti di legittimità costituzionale, si pone la necessità di comprendere fino a che punto la limitazione posta al diritto di licenziamento da parte del datore di lavoro sia compatibile con il novellato art. 2086 del c.c. Mentre l’art. 41 della Costituzione pone al medesimo livello la libertà economica privata e i finiti di utilità sociale, l’art. 2086 del c.c. è chiaro: sulle spalle dell’imprenditore grava il dovere e l’obbligo di evitare, prevedendola laddove è possibile, crisi d’impresa al fine di garantire la continuità aziendale. Pertanto, è necessario verificare come un tale provvedimento possa essere coerente con la necessità di provvedere ad una riorganizzazione aziendale sancita e tutelata dalla legge e che possa concretizzare anche nella riduzione della forza lavoro. Le misure varie messe in atto dal Governo, tra le quali quelle di integrazione salariale, non sembrano essere utili né ad una rinascita delle aziende, né tantomeno allo scopo di mantenere l’occupazione stabile attraverso un meccanismo di preservazione della forza lavoro che potrebbe essere utile al tessuto produttivo del Paese una volta terminata l’emergenza sanitaria.
Quindi, oltre l’evidente rischio di un vuoto normativo in merito al perdurare del blocco dei licenziamenti, ciò che risulta chiaro è la totale mancanza delle autorità pubbliche nel tentativo, mai messo in essere, di una reale programmazione economica dopo il primo lockdown. Nella fase di ripresa era probabilmente necessario l’immissione nel tessuto aziendale di finanziamenti a fondo perduto per ripartire e ristrutturarsi, accompagnata dalla riforma dell’ex collocamento, elemento essenziale, ad avviso di chi scrive, per seguire in maniera corretta il lavoratore che perde il proprio lavoro.
[1] P. Staropoli, L’organizzazione dell’impresa alla luce del nuovo art. 2086 e delle norme anti Covid-19, inserto di «Guida al Lavoro», n. 42 del 23/10/2020.
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